‘Lei lo sapeva che la sua voce era un dono di Dio’, dice una delle coriste che ha accompagnato Whitney Houston dal 1992 al 2001, Pattie Howard. Una voce così, poteva solo arrivare dal cielo. Lei ci aveva lavorato sù tanto da meritarsi  – da Oprah in persona – il soprannome di The Voice ma spesso non l’aveva protetta quella voce, anche se sapeva che era un dono divino. Fa venire la pelle d’oca Whitney, il documentario affidato dalla BBC a Nick Broomfield (quello di Kurt & Courtney del 1998 e di Biggie e Tupac del 2002). Fa venire i brividi la telefonata iniziale partita dal Beverly Hilton Hotel da cui si deduce che poco c’è da fare per la quarantottenne ritrovata in una vasca da bagno l’11 febbraio 2012 e fa venire i brividi la sua voce che parte, poco dopo, in I will always love you. Broomfield usa riprese note, estratti di concerti, interviste alla cantante, foto di repertorio e materiali video inediti per cercare di raccontare Whitney come ci è stata presentata dal mondo dello spettacolo a cui apparteneva. A tutto questo, però, aggiunge interviste a persone che le erano vicine (i fratelli Gary e Michel, la sorella dell’ex marito Tina Brown, produttori, musicisti, guardie del corpo) nel tentativo di fare emergere parte di quello che poteva essere la risposta alla domanda che spessissimo la cantante rivolgeva a chi la circondava e gestiva la sua immagine – e che è, by the way, il sottotitolo del documentario in inglese): ‘Can I be me?’, ‘Posso essere me stessa?’

Whitney nasce a Newark, nel New Jersey, in un luogo e in un momento in cui negli Stati Uniti si sente sulla pelle, sul peso degli sguardi e delle botte, cosa vuole dire essere neri. Cresce seguendo gli insegnamenti cristiani e canori, di sua madre, la cantante gospel Cissy Houston. Dopo il diploma, a diciannove anni, i suoi genitori la spingono ad iniziare la carriera da professionista firmando un contratto con la Tara Records. Ma il 1981 non è il 2017 e Rihanna e Beyonce sono ancora da venire. Anzi, senza Whitney come apripista non è detto che oggi sarebbero dove sono. Tornando al 1981, riconoscendo il talento straordinario di questa ragazza bellissima e volendone fare una star al di sopra di quello che la nicchia black poteva allora offrire, i produttori musicali a cui si è affidata decidono di ripulire Whitney dal suo passato: nessun riferimento alla crescita in un quartiere nero, nessun riferimento alla musica nera. Whitney viene lanciata, così, nel mondo del pop.
Il resto è noto e meno noto, tra l’inizio dell’uso di droghe con i fratelli e il conseguente abuso, tra il rapporto non definito con la sua amica – forse compagna – Robyn Crawford e quello burrascoso col marito Bobby Brown, ma è da allora che inizia la domanda ‘Posso essere me stessa?’ Chissà cosa avrebbe fatto potendosi lasciare alle spalle i parenti, gli amici e tutti quelli che manteneva con il suo lavoro. Chissà se avrebbe continuato a cantare nello stesso modo. Chissà in che altro modo lo avrebbe fatto.

La domanda che Broomfield ci lascia con il suo lavoro è chissà cosa ne sarebbe stato di Whitney Houston se avesse potuto fermarsi, se qualcuno – tipo suo padre – avesse avuto pietà, alzato una mano e chiesto: ‘Puoi essere te?’
Magari anche sua figlia Bobbi Kristina Brown sarebbe ancora qui.

Per sapere in quali sale cinematografiche ci sarà l’evento promosso in Italia fino al 28 aprile dalla Eagle Pictures andate sul sito: www.eventowhitney.it