‘Fammi spiccare il volo lontano da questa fatalità che s’attacca alla pelle, fammi spiccare il volo; riempimi la testa di altri orizzonti e altre parole, fammi spiccare il volo. Non lasciarmi là, portami via, fammi spiccare il volo, fammi incrociare altri occhi che non si rassegnano, fammi spiccare il volo, tirami fuori da là, mostrami quelle altre vite a me sconosciute, fammi spiccare il volo. Guardami bene, non assomiglio loro, non lasciarmi là, fammi spiccare il volo, con o senza di te, non farò quella fine. Fammi spiccare il volo, il volo, il volo…’ Così canta Jean-Jacques Goldman in una hit del 1984 che dà il titolo alla canzone che i due protagonisti di questo film, Thomas e Marcus, si trovano a cantare in un karaoke, Envole-moi, in un momento in cui ogni differenza tra loro, di età, condizione sociale, condizione sanitaria, sembrano magicamente annullate, nella condivisione del godimento dell’amicizia e la vita che ancora c’è in ognuno di loro. Thomas è il figlio quasi trentenne e viziato di un cardiochirurgo che ha in cura un ragazzino di 12 anni con una malattia rara, sempre più stanco di cure infinite che sembrano non portare a una risoluzione della sua problematica e di una condizione che lo limita in tutto e per tutto. Per dargli una lezione di vita (o forse percependo l’esistenza di una possibilità per entrambi in un contatto), il padre costringe Thomas a cercare di soddisfare la lista di desideri di Marcus, minacciandolo, in caso in cui non accettasse quella che sembra una vera e propria sfida, di tagliargli i fondi per sempre (ovviamente Thomas vive di rendita e non sembra avere alcuna intenzione di rendersi indipendente). Thomas (ancora ovviamente) è restio ad incontrare Marcus ma, quando lo farà, non si troverà avanti un ragazzino debilitato secondo lo stereotipo del bambino malato (dovuto anche all’immaginario cinematografico e alla distanza che spesso mettiamo tra noi e le malattie), ma uno sveglio, con le sue debolezze dovute all’età e alle difficoltà che già è stato costretto ad affrontare e che affronta ogni giorno, ma che gli farà scoprire le sue stesse capacità e la possibilità di vivere il tempo e di imparare a non lasciarlo scivolare, e magari a fare qualcosa di piccolo ma straordinario che possa far volare qualcun altro, e anche se stesso.
Finalmente il rientro in sala, nel mio luogo sicuro per eccellenza, nel posto buio e di luce senza tempo e spazio. In punta di piedi, come per non disturbare. Con la mascherina e in una situazione – quella delle anteprime cinematografiche – più protetta rispetto alle proiezioni pubbliche (meno gente, chissà se più o meno è rispettosi di ciò che è ed è stato). L’immaginazione, lo spazio altro da me e da te che leggi, mai è stata rinchiusa. Nemmeno in questi ultimi anni in cui il tentativo di riempire tutto per non far passare un filo di aria e angoscia, in cui si è fatto correre la ruota del cricetino che abbiamo nella testa per tenerlo impegnato e quasi non aver tempo di respirare, l’altra me e l’altra te (quella che pensa, che mormora, sogna, legge, scrive e chissà dove va quando guarda un film) non hanno mollato la loro libertà.
E il cinema tocca – sempre – proprio quest’altro da noi.
Peccato ripartire (termine non propriamente corretto dato che forse mai come ora abbiamo accumulato ore e ore di visioni, ma la sala buia è la sala buia ed è un’esperienza diversa anche dal megaschermo di 60 pollici nel salotto di casa) con un film che pare più adatto alla tv che al grande schermo. Perché Volami via, scusatemi il banale gioco di parole, non spicca mai davvero il volo. La storia è la stessa del tedesco Conta su di me (Dieses bescheuerte Herz) di Marc Ruthemund (regista il cui La Rosa bianca – Sophie Scholl fu candidato al Premio Oscar come miglior film straniero nel 2005), vincitore del Giffoni Film Festival del 2017, di cui la versione francese di Christophe Barratier (un altro regista che era approdato nel 2005 al Giffoni con Les-choristes – I ragazzi del coro senza vincerlo, con il film scelta francese nientepopodimeno che per la candidatura all’Oscar come miglior film straniero e per la miglior canzone) ne esce edulcorata (niente tette e cocaina) e senza quel carico emozionale che chiude l’originale tedesco (forte di un Hallelujiah che accompagna le immagini dei veri protagonisti di questa storia, Daniel Meyer e Lars Amend, che ne hanno scritto un libro da cui deriva la sceneggiatura). O almeno, la mia impressione è che, nonostante l’ottimo feeling degli interpreti principali (Victor Belmondo e Yoann Eloundou che fanno davvero un ottimo lavoro) manchi qualcosa a livello di scrittura che svisceri davvero le tematiche di cui questo film si fa portavoce (la malattia, le aspettative, il lavoro o una vita sfrenata per riempire un vuoto). In più, nella versione originale (che potete recuperare su Mediaset Play) sono davvero stata infastidita dal doppiaggio e in quella francese ho mal digerito il tentativo di sviluppare i personaggi secondari e alcune situazioni di contorno, che, invece di ispessirli, rischia di banalizzarli e non accresce il valore della narrazione. Per concludere, un film di buoni sentimenti da vedere stravaccati sul divano con il telecomando in mano ma nulla di più. Avevo bisogno di un piantone (qualcuno ha azzardato un legame della storia con Quasi amici ma le somiglianze si limitano all’ispirazione dalla vita vera e ad un’amicizia tra due esseri diversissimi e mai più giusti l’uno per l’altro). Io non ho pianto né con la prima né con la seconda versione di questa storia.
E pensare che con una storia di anatre (Sulle ali dell’avventura di Nicolas Vanier) avevo allagato la sala.