‘Potranno prenderti tutto, figlio mio, ma non quello che hai dentro di te’.
Sua madre – e i passi che ha compiuto nella sua ricerca, e la pioggia che ha preso nell’attesa che le dicessero ‘è qui, può vederlo’ o ‘è un’informazione che non posso darle’, e il dolore nel non poterlo abbracciare, e la consapevolezza della violenza subita, e la sua dignità infinita – risponde così a suo figlio. Suo figlio José Mujica, chiamato dai suoi amici Pepe (interpretato da un superbo attore di nome Antonio De La Torre) riceve questa sua risposta quando le chiede di non continuare a cercare le sue tracce per potergli fare visita. Sta perdendo il senno. Alle volte non capisce nemmeno se sua madre è reale o se la sta solo pensando. Quando lei è lì, non può toccarla per chiarire il dubbio  perché è ammanettato ai piedi del tavolo. Uno degli altri nove prigionieri del Movimento di liberazione nazionale Tupamaro, una formazione politica e di guerriglia, arrestati con lui nel 1972, l’anno prima del Golpe che ha tenuto al potere in Uruguay i militari fino al 1985, ha una figlia che si domanda se suo padre abbia le mani. Non ricorda di averle mai viste. Eleuterio Fernàndez Huidobro (Alfonso Tort) si chiama il suo papà. Mauricio Rosencof (il bellissimo Chino Darìn) ha lo stesso destino ma sa pensare storie. D’altronde è uno scrittore. Raccoglie i suoi pensieri e li regala a Eleuterio per trovare un modo per costruire un contatto con sua figlia.

L’ordine che i soldati che si occupano della prigionia hanno ricevuto è: ‘Visto che non possiamo ammazzarli, li condurremo alla pazzia’.

Forse le parole della signora Mijica possono sembrare retoriche, parti di una sceneggiatura ben scritta. Invece fanno riferimento a un potere concreto e reale, ossia la capacità di andare altrove con la nostra mente, con l’immaginazione. La stupefacente possibilità di varcare lo spazio e il tempo e di proteggere l’essenza del nostro essere da ogni contatto esterno. Quello che noi siamo dentro di noi, nessuno può togliercelo. Cancellata la nostra mente, si cancellerebbe ogni traccia di quello che siamo. E nulla avrebbe più importanza.

Un racconto straziante e bellissimo (a tratti anche buffo nella rappresentazione dell’assurdità di alcune situazioni) di eventi realmente accaduti di cui la mia generazione sa poco o nulla. I tre personaggi protagonisti di Una notte di 12 anni, narrati in maniera eccelsa da Álvaro Brechner – che non li ha resi retorici né ha realizzato un semplice prison-movie, rischio insito alla vicenda stessa – hanno fatto la storia del loro Paese e la storia della democrazia. Hanno lottato per le loro idee, hanno pagato per le loro idee; sono andati oltre se stessi e il tempo; sono riusciti a dimostrare che la conoscenza può sempre far comodo (incredibile pensare che picchiettando alla parete, siano riusciti a giocare a scacchi usando il linguaggio morse) e che l’essere umano può mantenere la sua umanità e resistere a molto più di quel che pensa.
Quando tutto questo è accaduto noi c’eravamo. Com’è possibile che abbiamo imparato così poco?

Un film potentissimo assolutamente da vedere.