Un’auto sbanda continuamente nella notte di Casper, in Woyming. Sono gli anni ’50. Dick, un’operaio di una compagnia elettrica statunitense, sta ancora per deludere la sua promessa sposa. Ha bevuto molto. La polizia lo fermerà e arresterà per guida in stato di ebrezza. Questa non è la prima volta che Dick fa una cosa del genere. Lynne gli ha già perdonato l’espulsione da Harvard ma non ha più alcuna intenzione di perdere quello che ha deciso da sempre di avere nel suo futuro. Senza troppi giri di parole – e cacciando in malo modo i tentativi di intromissione di sua madre, una donna debole che ha scelto la strada opposta alla sua facendosi schiacciare da un uomo mediocre, alcolizzato e violento – gli dirà che non ha intenzione di aspettare più che cambi perché lo ha scelto per amore ma anche confidando che fosse un uomo che avrebbe potuto garantirle il futuro, grazie anche all’appoggio e alla spinta che gli saprà dare, per il quale lei stessa non può combattere, semplicemente perché donna in una società non ancora (e questo non ancora e purtroppo dannatamente attuale) pronta a vedere una femmina ai vertici. La prima domanda che si fa lo spettatore è: ma questo ragazzo alcolizzato che sembra non aver voglia di fare nulla è davvero Dick Cheney, lo stesso che, insinuandosi nel tessuto politico di Washington DC durante l’amministrazione Nixon, riuscì a divenire vicepresidente di George W. Bush e ad esercitare, quasi senza essere visto, un controllo totale non solo sugli Stati Uniti ma sul destino del mondo? La seconda è: che cosa diavolo gli ha smosso dentro Lynne con quelle parole, tanto da dare un orizzonte diverso alle loro vite? E la terza: ma chi cavolo sta raccontando questa storia?

Adam McKay, dopo aver vinto l’Oscar come miglior film per La grande scommessa, gira una storia che ha dell’incredibile nel suo essere reale. Racconta i movimenti compiuti nell’ombra, spostamenti di pedine su una grande scacchiera, che hanno causato eventi che tutti conosciamo, in parte perché si tratta di tragedie che abbiamo vissuto in prima persona (chi non ricorda cosa stava facendo durante il crollo delle Torri gemelle?) o di cui siamo stati spettatori, accadimenti che hanno riempito le news e che ci hanno fatto chiedere da che parte il mondo stesse andando e se ancora fosse presente sulla Terra qualcuno con un minimo di controllo degli eventi, un minimo di comprensione dei rapporti di causa ed effetto in quello che ci è sembrato il delirio più totale, tra armi di distruzione di massa mai trovate, terrorismo, guerra e la nuova sensazione, ormai di tutti, di non poter essere al sicuro, mai più, da nessuna parte. E di doverci arrendere a vivere per sempre così. Nella speranza che un giorno, la nostra capacità di accoglienza, potrà forse, se riconosceremo ancora che alla base dell’esistenza c’è un battito cardiaco, farci arrendere alla presa di consapevolezza di appartenere tutti alla stessa specie.
McKay prende alcuni degli attori più bravi del mondo (un’altra domanda che lo spettatore si pone è: ‘Ma Cheney non doveva farlo Christian Bale?’ – Christian Bale, appunto, Amy Adams, Steve Carell e Sam Rockwell, tanto per farvi dei nomi) e racconta parte della vita di uno degli uomini, o forse, più correttamente, della coppia (dal momento che alle volte sembra che il motore degli eventi sia Lynne o che, comunque, senza il suo supporto Dick non sia capace di portare avanti le sue azioni) più influenti del mondo, di cui non ci eravamo quasi accorti, di cui non avevamo compreso la forza e la pericolosità, la determinazione e l’accecante volontà di vincere, di acquisire sempre più potere, ad ogni costo, sopra ogni legame o rapporto. Lo fa assumendo un punto di vista straniante (quando, dopo quasi due ore di film, capiamo chi è il narratore impersonato da Justin Kirk, ossia un americano qualunque, un uomo come potremmo esserlo noi – che siamo davvero compresi da questo racconto perché quella narrata è anche una nostra storia dato che c’eravamo), rompendo spesso la quarta parete, commentando e spiegando gli avvenimenti e le emozioni di chi fu costretto a prendere una posizione, ipotizzando finali e poi portando il racconto da un’altra parte, facendoci ridere e arrabbiarci ma anche provare empatia nei confronti di un marito e padre, nella consapevolezza che questa verità che si cerca di raccontare è solo una parte di quello che siamo riusciti a scoprire (McKay è partito dalla biografia di Robert Moss intitolata The Power Broken), in un’analisi molto variegata di 40 anni della storia degli Stati Uniti (incredibile l’apporto dato al film dalle maestranze, trucco, parrucco, costumi e scenografie e dalla produzione che, non per niente, sono tutti professionisti ultrapremiati, come Greg Cannom – costumista premio Oscar per Dracula, Mrs. Doubtfire, Il curioso caso di Benjamin Button – Dede Gardner – presidentessa della Plan B Entertainment e vincitrice dell’Oscar per 12 anni schiavo e La grande scommessa –  Kevin Messick – La grande scommessa – Jan Pascale – nomination per Good night, and good luck – Patrice Vermette – Arrival, Prisoners tra gli altri) e di un tentativo di indagine dei meccanismi del potere, di quello che potrebbe essere visto come un ‘vizio’, come l’altra traduzione del titolo americano ‘vice’, ci suggerisce.

Un film superbo, da pelle d’oca se pensiamo che qualcun altro in questo stesso momento potrebbe avere la stessa pazienza, la stessa capacità di investire tempo, la stessa cocciutaggine per restare ad attendere il momento giusto, che il pesce abbocchi. Lo stesso approccio di questo personaggio di nome Cheney, capace di raggiungere la vetta più alta partendo da una cittadina di provincia dell’entroterra americano, dall’essere meno di un personaggio mediocre a determinare scelte che hanno avuto un impatto sulla storia e sugli incubi di tutti noi. E pensare che le esche da pesca a traina mi erano sempre sembrate bellissime.