Tonya Harding è stata una pattinatrice sul ghiaccio arrivata ad imporsi negli anni ’90, divenuta famosa per uno scandalo, una storia pazzesca che la vide coinvolta nell’aggressione ad un’altra pattinatrice statunitense, Nancy Kennigan, poco tempo prima delle selezioni della loro nazionale per le Olimpiadi di Lillehammer. Suo marito Jeff Gillooly fu condannato per aver organizzato la cosa in modo tale da eliminare la rivale della moglie ed assicurarle un posto in squadra. Anche Tonya ebbe una condanna nonostante si fosse dichiarata estranea alla vicenda. Divenne la seconda americana più famosa al mondo dopo Bill Clinton. Il cognome di suo marito fu persino coniugato come fosse un verbo per indicare ‘l’aggredire qualcuno’ tanto che l’uomo fu poi costretto a cambiarlo.
Craig Gillespie (regista di uno dei miei film preferiti, Lars e una ragazza tutta sua, con un giovanissimo Ryan Gosling) gira I, Tonya, un’affermazione dell’esistenza, la messa di un punto nella vita di una persona di cui si è detto tutto e niente. Io, Tonya. Il film fa guadagnare una nomination agli Oscar come miglior attrice protagonista a Margot Robbie (Tonya) e la vittoria ai Golden Globe e una nomination agli Oscar come miglior attrice non protagonista ad Allison Janney (LaVona). Gillespie prende spunto dalle vere interviste ‘involontariamente ironiche, selvaggiamente contradittorie’ a Tonya Harding e al suo ex marito Jeff (Sebastian Stan). Partendo dalle parole della protagonista, Gillespie ci racconta un personaggio quasi surreale che sembra incarnare in sé l’America, e come l’America, può essere solo amata o detestata. Senza alcuna via di mezzo. Tonya ha quattro anni quando sua madre LaVona convince l’allenatrice a seguirla, nonostante sia piccola per seguire le lezioni. Tonya inizia a vincere da subito. Supportata dalla convinzione che la rabbia sia importantissima per la carriera sportiva della figlia, LaVona, una donna scurrile e violenta che porta agli allenamenti una fiaschetta piena di alcol e fuma persino sul ghiaccio, isola Tonya perché non abbia nulla che possa distrarla dal pattinaggio: studi, amici, affetti familiari. Tutto quello che riesce a guadagnare lo investe in sua figlia, a cui è costretta a realizzare in casa i costumi per le competizioni. Quando suo padre andrà via Tonya non avrà davvero più nulla tra sé e la violenza di sua madre. Questo finché alle botte prese da LaVona non si aggiungeranno anche quelle del suo ragazzo, e poi marito, Jeff.
Ma Gillespie non dimentica di raccontare che Tonya è stata una delle pochissime pattinatrici capaci di fare un triplo axel, ossia di elevarsi pattinando all’indietro e di ruotare, spostando il peso in volo, per ben tre volte e mezza con una lama affilata come quella di un rasoio puntata verso una gamba. Una roba davvero da toste. Ci mostra pure che Tonya è stata capace di rialzarsi in più di un’occasione e di rimettersi in gioco, dimostrando di essere, comunque, una vincente. La storia narrata e alcuni dettagli sono talmente tanto assurdi che non si riesce a scappare al riso, come davanti al pappagallino di LaVona che non fa che beccarla o di fronte a Shawn, il miglior amico di Jeff, che si dice la guardia del corpo di Tonya, un infiltrato dell’FBI e un esperto di terrorismo internazionale. Niente di tutto ciò è stato partorito dalla penna dello sceneggiatore Steven Rogers. È tutto materiale che gli ha regalato la realtà. Purtroppo, anche se quando si supera un certo limite il regista ci ricorda di avere la situazione sotto controllo facendo parlare i protagonisti direttamente in camera, è reale anche tutta la violenza giustificata da un’oscura forma d’amore, come è vero anche che si può essere la migliore ma si potrà essere scartate per far posto a figure più eleganti. Gillespie si sposta tra cittadine che hanno quasi tutte lo stesso nome seguendo canzoni da urlo e lascia il dubbio sulla protagonista del suo racconto perché, come lei stessa dice, alla fine non si sa mai quale sia la verità perché ognuno ha la sua. A Tonya interessa solo che si sappia che lei, alla fine di tutto, non ha mai avuto vergogna di essere una campagnola ed è stata una buona madre.

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