Se ti tocca da vicino, ti cambia.
In Germania, tra il 1997 e il 2011, un movimento neonazista chiamato NSU (Nationalsozialistischer Untergrund) fu responsabile di una serie di attentati e omicidi a matrice razzista. Fatih Akin, regista tedesco di origine turca (suoi gli splendidi La sposa turca, Soul Kitchen e Il padre, tra gli altri) non si stacca mai dal volto e dal corpo esilissimo di Diane Kruger, mentre presta se stessa allo struggente personaggio di Katja, una donna innamoratissima di suo marito e del loro bambino, che in un giorno come tanti, perde entrambi, senza un apparente motivo e, nella ricerca di verità e giustizia è costretta a veder spingere (spinge lei, spingono tutti quelli che in questo mondo civile le fanno domande e le gravitano intorno) sempre più in là la soglia di un dolore che era già infinito. Forse Akin va oltre nel racconto in cui ogni piccola macchia e caduta, anche del passato, diventa un pretesto per sostenere il ribaltamento e l’accusa. Forse può sembrarci anacronistico un racconto in cui dei ragazzi tentano di emulare Hitler. Eppure, questi elementi appartengono al mondo reale da cui tutto ha preso spunto. Akin va oltre fino a capovolgere il tutto, abbandona ogni speranza e ci trasforma in assassini. Io alzo le mani in alto. E sto. Perché voglio credere che abbiamo ancora una speranza. Fosse anche solo la capacità di raccontare queste storie, mi sentirei di aver vinto.

Due anni fa, su una spiaggia francese, una persona a cui volevo bene stava guardando dei fuochi d’artificio prima di un attentato. Fosse anche solo perché non l’ho dimenticata, mi sentirei di aver vinto.