Il Teatro Comunale di Benevento ha gli spogliatoi degli attori all’ultimo piano. Il palazzo sembra una meringa e la luce che entrava dalla terrazza attigua agli spogliatoi sembrava restituire all’interno l’aspetto del palazzo. Non credo di aver mai visto Ruggero Cappuccio in quella luce. Ma è quella luce che gli associo. Perché era quello l’ambiente che aveva scelto per noi, per i suoi attori, per me. Un regista sono i luoghi che ti mette attorno, gli oggetti di scena che sceglie o non sceglie. Un drammaturgo sono le pause che ti costringe a vivere, il tempo del tuo respiro e la scelta della parola di una frase su cui porre l’accento. Per me Ruggero Cappuccio era una lingua antichissima e nobile che non sapevo parlare; era come ti risuona Shakespeare dentro, come quando scopri all’improvviso che puoi sentire il rumore delle tue stesse costole; era il Vesuvio che seguivo con le dita sul finestrino mentre andavo all’Arenella da zia. Tutto questo era Ruggero per me quando avevo 14 anni.

Oggi Ruggero Cappuccio è anche interprete. Per me che di lui ho vissuto solo il riflesso dell’anima e seguito l’odore di sigaro, vederlo parlare così tanto in scena fa un effetto strano. Cerco di ricordarmi che quello che sto guardando non è Ruggero ma Giuseppe Acquaviva. É lui che tiene le fila di Spaccanapoli stories. È lui quello che chiama a raccolta i suoi fratelli  – Gabriella (la grandiosa Gea Martire) con il timore delle formiche e dagli amori la cui distruttività è direttamente proporzionale al gioco delle consonanti del nome proprio; Romualdo (il più noto Giovanni Esposito, interprete anche cinematografico e televisivo) silenziosissimo, ma a volte no, pittore unico spettatore della propria opera; e Gennara, con un nome più napoletano che non si può e un accento più palermitano che mai per amore, perseguitata dai suoi fantasmi e con un blocco nel suo presente (Marina Sorrenti) – il loro passato, le loro memorie, le loro fobie e la loro pazzia in una casa ricoperta di vetro. La storia è un compromesso tra ricordi differenti dello stesso momento. La pazzia è solo un punto di vista. La famiglia e l’amore, anche degli invisibili o dei diversi, sono da proteggere con cura, perché si tengono su leghe trasparenti e bellissime ma anche fragili, che hanno un valore anche quando si pensa di no, solo perché l’acqua in bottiglie di vetro sembra sempre acqua e il vino no, solo perché qualcuno (magari un medico interpretato dal grandissimo Ciro Damiano) non ti ha riconosciuto, oppure lo ha fatto troppo bene perché, nonostante la miseria e la difficoltà, ha invidiato il tuo essere, alla fin fine, meno povero di lui. Ruggero Cappuccio aggiunge altri fantasmi al suo immaginario, altri spiriti di un mondo più reale di quanto vorremmo, altri riflessi di qualcosa che sembra far parte del passato ma che, invece, se riusciamo a vedere oltre il muro di vetro dei nostri occhi è più vicino di quanto crediamo. D’altronde, siamo tutti passati da una stazione.