Breathe. Respira. È la cosa che Diana chiede con più forza a Robin.

Inghilterra, anni ’50. Robin Cavendish (Andrew Garfiel, che nonostante quello sbrilluccichio molto interessante negli occhi ancora non mi ha convinto di essere un bravo attore) è uno che non si tira indietro mai. Diana (la – invece – straordinaria protagonista della serie The Crown, Claire Foy) è una compagna di vita irraggiungibile, bellissima, molto corteggiata, appartenente ad una famiglia aristocratica inglese, protetta dai suoi due fratelli maggiori, i gemelli Bloggs e David Becker (interpretati, entrambi, dal grandissimo Tom Hollander, una faccia che avete visto anche nella saga de I Pirati dei Caraibi oltre che nella miniserie Dottor Thorne e in moltissime produzioni britanniche). Una a cui Robin non potrebbe aspirare. Ma Diana non è una sciocca e vede quello che tutte le persone accanto a Robin, anche inconsapevolmente, intuiscono: ottime qualità e, soprattutto, una incredibile e sana ambizione e forza di volontà che gli fanno ottenere il rispetto e l’amicizia di chiunque incontri la sua strada. E di strada Robin ne farà un sacco. A 28 anni ha tutto quello che avrebbe voluto a quell’età: ha sposato Diana con cui ha un rapporto splendido, ha intrapreso, dopo la laurea in legge, un’attività di import di tè da varie parti del mondo e lui e Diana – una donna emancipata e fortissima che lo segue ovunque e lo sostiene in tutto quello che fa – stanno aspettando un bambino. Al momento vivono in Africa per gli affari di lui e sono molto felici. Un giorno però Robin perde – lui, il più forte della cricca – una partita a tennis contro il suo amico Colin (Edward Speelers). Robin minimizza per non far spaventare Diana, ormai prossima al parto. Di notte però ha una crisi e devono portarlo d’urgenza in ospedale. Non riesce a respirare: poliomielite. Gli vengono diagnosticati pochi mesi di vita. Nel pomeriggio giocava a tennis e il giorno dopo è paralizzato a letto attaccato a una macchina che gli consente di respirare. Diana gestisce lo shock e lo riporta in Inghilterra dove potrà avere cure migliori. Ma le cure migliori sono un letto d’ospedale in uno stanzone con altre persone nelle stesse condizioni, tutte attaccate a dei respiratori e con un’assistenza 24h su 24.  Robin man mano si abitua al respiratore e riprende a parlare ma non vuole vedere suo figlio, Jonathan, appena nato, non vuole vedere Diana né nessun’altra di tutte le persone che gli vogliono bene e che vorrebbero sostenerlo.
Può muovere solo la bocca. E con quella cerca di cacciarli via. Ma Diana è una tosta e non si arrende facilmente e, fregandosene dei rischi, o meglio, condividendoli con suo marito, porta Robin a casa, tra le urla di giubilo dei suoi compagni di stanza e quelle del primario assolutamente contrario a questo trasferimento.

Questa è anche la storia di Jonathan Cavendish, quel bambino che Robin appena ammalatosi non voleva vedere e che, invece, al contrario, lo ha visto diventare un ottimo padre e un punto di riferimento per tutti i malati che, grazie anche ad una sedia mobile con respiratore inventata per lui dal suo amico Teddy  Hall (Hugh Bonneville), hanno avuto la migliore delle vite possibili nel loro stato. Sono riuscite a vivere nelle loro case, tra i loro cari, e persino, anche un po’ inconsciamente, a vedere il mondo. Jonathan è il produttore di questo film (tra l’altro la pellicola è la prima regia del ‘mostro sacro’ Andy Serkis).

Ogni tuo respiro è un racconto a metà tra La teoria del tutto di James Marsh e La mia Africa di Sydney Pollack. Stesse ambientazioni, simili rappresentazioni di donne di una bellezza pulita e con una forza straordinaria e di legami che vanno oltre i limiti che gli stessi protagonisti non avrebbero potuto immaginare di poter superare. Mi è piaciuta moltissimo la collettività, il fatto che questo personaggio incredibile, Robin, quest’uomo malato, riuscisse a tenere attorno a sé, anche da quasi immobile, tantissime persone. Il suo amico Colin gli dice che va spesso a trovarlo perché ogni volta, ad ogni incontro con Robin, si sente meglio, ma non perché in confronto ad un uomo paralizzato stia oggettivamente in una condizione migliore ma perché l’atteggiamento del suo amico gli fa pretendere da se stesso sempre qualcosa in più, perché guardando l’incredibile che Robin riesce a raggiungere ‘ vivendo’ – non sopravvivendo – ogni giorno, lui sente che può fare di più. E che la vita è meravigliosa. Come detto, Garfield non è uno dei miei attori preferiti e avrei preferito un altro nei panni di questo personaggio meraviglioso. Eppure, anche se ci ricorda altro, questa storia andava raccontata.
Grazie a Jonathan Cavendish per aver condiviso la sua storia. Complimenti ai suoi genitori per il coraggio di ribaltare tutto, di essere entrati in più di una stanza con dei malati simili a dei carcerati e di averli liberati tutti. Affinché finalmente, anche loro, potessero respirare.