Moisés Kaufman, il drammaturgo di Atti osceni – I tre processi di Oscar Wilde, si è definito in questo modo: “I am Venezuelan, I am Jewish, I am gay, I live in New York. I am the sum of all my cultures. I couldn’t write anything that didn’t incorporate all that I am.” 
L’urgenza fa la differenza tra una scrittura mediocre e una no. È un pugno in faccia la piéce di Kaufman messa in scena dalla coppia (artistica e non) di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia per la compagnia dell’Elfo Puccini di Milano.
Assurdo che, nel 1985, mentre andassero in scena due piéce di Oscar Wilde nei teatri londinesi, L’importanza di chiamarsi Onesto – i due registi hanno scelto vie diverse per il gioco di parole dovuto alla pronuncia inglese tra il nome di battesimo ‘Earnest’ e l’aggettivo ‘honest’, facendo pronunciare il primo in Atti Osceni e cancellando ‘Ernesto’ del titolo della commedia da domani in scena all’Elfo – e Un marito ideale, l’artista venisse perseguitato per la sua omosessualità, un termine che all’epoca non esisteva nemmeno. Folle anche che nel primo processo Wilde fosse l’accusa, avendo lui denunciato per calunnia John Sholto Douglas, nono marchese di Queensberry e padre di Alfred Douglas, Bosie, con cui Wilde, sposato e con due figli, intratteneva una relazione dal 1891. Una volta divenuto noto lo scandalo, fu addirittura la Regina Vittoria a muovere causa contro lo scrittore per una norma, da lei introdotta, che proibiva – solo agli uomini – lo scambio di effusioni. Secondo la Regina, infatti, solo gli uomini erano soliti tentare un approccio con individui dello stesso sesso.
Fortissimo l’impatto della presa di posizione di Wilde che si dichiara sempre ‘non colpevole’, proprio perché – come fa chiarire al pubblico Kaufman sia da lui che gli altri testimoni dell’epoca, come Bernard Shaw, personaggi dell’opera – non ritiene di doversi sentire colpevole per nulla, anche perché i suoi rapporti sono sempre avvenuti con individui giovani sì ma consapevoli e riconducibili nella loro totalità alla ricerca della felicità, dell’appagamento dei sensi, della ‘Bellezza’ di qualunque tipo e forma, della ‘Vita’ che ha caratterizzato ogni minimo gesto e azione dell’intellettuale, che incarnava in se stesso lo spirito del Rinascimento inglese dell’Arte di cui si fece capostipite.
I due registi lombardi (Bruni è della provincia di Varese, di Frongia non so quasi nulla) hanno deciso di far seguire alla messa in scena di Atti Osceni quella de L’importanza di chiamarsi Ernesto, due punti di vista molto diversi per raccontare parte delle mille sfaccettature del’intellettuale Wilde. Atti osceni è un racconto cupo, scuro, quasi asfissiante. Una sola quinta, frontale, resta spazio per la riflessione. All’inizio della piéce vi campeggia sopra la scritta: ‘La verità è raramente pura e non è mai semplice’. Il resto della struttura è costituita da sbarre di danza che diventano, di volta, spazio della giuria, del condannato, pulpiti dai quali parlare a una folla di studenti universitari, accademici o di curiosi nella sala di un tribunale. L’importanza di chiamarsi Ernesto (di cui abbiamo sbirciato le prove con un gruppo di fortunati grazie a un’iniziativa di Feltrinelli) avrà una scena chiara, luminosa e un’ambientazione anni ’70, proprio in contrasto con quanto rappresentato in Atti osceni. Tre attori – molto bravi – sono presenti in entrambe le opere, Riccardo Buffonini (in Atti Osceni, Lord Alfred Douglas/Narratore; in L’importanza di chiamarsi Ernesto, Algernoon Moncrieff); Giuseppe Lanino (nel primo, l’avvocato Clarke/Narratore; nell’altro, John Worthing) e Nicola Stravalaci (da una parte, l’avvocato Carson, il giudice, il narratore e, dall’altra Merriman/Lane). Da sottolineare oltre loro, anche l’interpretazione di Giovanni Franzoni (Oscar Wilde) e del trasformista Ciro Masella (il marchese di Queensberry, l’avvocato Gill, il procuratore Lockwood e il Narratore).
Così affermano i due registi nel libretto di scena: ‘La vicenda dolorosa del prigioniero di Reading è ancora oggi sciaguratamente attuale in una società che sembra a volte arretrare per trincerarsi nella paura contro ogni ‘diversità’ e in cui la voce forte e chiara dell’arte ha più che mai il compito di dissipare questa paura’.