La prima cosa a cui ho pensato una volta uscita dalla sala cinematografica (a parte chiedermi quanto diamine avesse speso il mio amico Nicola per l’anello della sua futura sposa visto il sorriso dello staff dello sponsor Cartier nel riconoscerla accanto a me in sala) è stata che le mie amiche ed io ci saremmo inventate una scusa migliore di una rapina per imbucarci ad una festa. Mai fatto questo genere di cose con le vostre girlfriends? Se la risposta è negativa, vi siete perse un bel divertimento; in caso contrario, sapete perfettamente di cosa sto parlando.
La festa esclusiva di Ocean’s 8 di Gary Ross è LA festa per eccellenza, ossia il Met Gala, il party di beneficenza a favore dell’Istituto del Costume che dal 1971 – 1972 si realizza ogni anno nel Museo che lo ospita dal 1946 (dalla fondazione del 1937 fino al ’46 costituiva un museo a sé, poi la sua collezione è entrata a far parte del Metropolitan Museum of Art di New York, uno dei musei più grandi ed importanti del mondo con una mostra permanente di più di due milioni di opere d’arte divise in diciannove settori diversi). Il primo lunedì di maggio di ogni anno il museo è chiuso per la preparazione della festa della sera, i cui partecipanti pagano un costo (quest’anno il biglietto singolo era prezzato 30mila dollari mentre un tavolo 275mila) il cui ricavato va ad arricchire le casse dell’istituto stesso. Il tema annuale ogni volta è diverso e la passerella di ingresso è uno dei momenti più fotografati dell’anno, sia per la quantità e il valore delle star invitate all’evento (il cui biglietto di frequente è pagato dagli sponsor che forniscono loro abiti e accessori) che per lo splendore delle creazioni da queste indossate che, ovviamente, rispettano sempre la tematica scelta in modi spesso bizzarri.

Il Met Gala è la location del grande colpo e il nucleo di questo Ocean’s 8, un ‘Ocean’ in cui le auto e le grandi abilità da macho vengono sostituite dagli abiti e dal fascino femminile del gruppo capitanato da Debbie Ocean (Sandra Bullock), la sorella di Danny, dato ormai per morto, che ha passato gli ultimi cinque anni, otto mesi e dodici giorni in carcere a progettare questo colpo. Che poi si rivelerà carico anche del gusto di una vendetta oltre che di quello di una vittoria. Ad attenderla per darle un rifugio il giorno dell’uscita di galera, la sua complice di sempre Lou (Cate Blanchett) che alla ricomparsa di Debbie gestisce in modo più o meno illecito un nightclub e che l’altra dovrà convincere ancora una volta a stare al suo fianco. La coppia recluterà poi i membri del team con cui effettuare il colpo: l’esperta di gioielli Amita (Mindy Kaling), disposta a tutto pur di liberarsi per un po’ dalle pressioni di sua madre perché trovi un marito, la borseggiatrice manolesta, moderno animale cittadino, Constance (Awkwafina), l’insospettabile ricettatrice, madre e moglie perfetta della provincia Tammy (Sarah Paulson) e l’hacker dall’identità nascosta e dal genio ‘familiare’ Palla Nove (Rihanna). L’obiettivo del furto è una collana stratosferica di Cartier (ricordiamo il profondo legame della maison francese con il cinema: suoi i gioielli per Gli uomini preferiscono le bionde, A qualcuno piace caldo, Viale del tramonto e High Society), la Toussaint (ispirata ad una collana realizzata nel 1931 per il Maharaja di Nawanagar che non esiste più), per cui avranno bisogno di una ignara star (Daphne Kluger, interpretata da Anne Hathaway) e una stilista in difficoltà (nei panni di Rose Weil, il mito Helena Bonham Carter). Debbie crede che nel momento in cui Daphne Kluger si convincerà a servirsi di una creazione di Rose Weil (l’abito che indosserà alla festa è un Valentino), la stilista potrà convincerla a indossare la collana da richiedere al colosso francese per la sfilata del Met Gala, intitolata ‘Il globo imperiale e lo scettro: cinque secoli di abiti imperiali’. Quale ornamento migliore per una star che vorrebbe essere guardata come un’imperatrice se non una collana Cartier chiusa da mezzo secolo in una caveau di massima sicurezza?
Tra i pochi maschi nella storia John Frazier – troppo sveglio – l’agente assicurativo che più volte ha avuto a che fare con la famiglia Ocean (e che è interpretato dal fantastico James Corden che tra tutto quello che ha fatto ha anche inventato il format Carpool Karaoke) e il bellissimo – ma meno sveglio – Claude Becker, un curatore d’arte interpretato dal bellissimo Richard Armitage, protagonista della saga de L’Hobbit di Peter Jackson.

Ocean’s 8 è una partitura incredibile, un collage di eccellenze proveniente da mondi disparati (della moda, della fotografia, del mondo attoriale, della scenografia, dei costumi e di ogni reparto coinvolto nella costruzione del film) eppure la sceneggiatura non riesce a portarci oltre la visione di un semplice, e molto divertente, prodotto da intrattenimento leggero, in cui anche la suspense che ogni furto complesso porta con sé è quasi ridotta all’osso dal tratteggio dei caratteri da cliché delle sue protagoniste e in cui i colpi di scena rientrano in partiture classiche, perfettamente riconoscibili, nelle quali, la soddisfazione è data dalla femminilità dei soggetti. Il racconto è su dei ladri. Delle ladre, per l’appunto. Non siamo di fronte a figure così interessanti come le killer di Kill Bill di Tarantino (e un po’ ce ne dispiace perché con un cast del genere bastava scendere leggermente più in profondità) ma si tratta, dopo quindici anni, di un altro gruppo di donne che si muove in ambiti solitamente maschili. Molto interessante il lavoro sui costumi, sullo stile di ciascun personaggio (ognuna delle protagoniste ha un look particolare e distinto e ogni abito da Gala indossato fa venire voglia di fare la ola in sala) ma questi elementi avrebbero potuto essere il contorno di un maggior contenuto e non avrebbero allontanato il pubblico maschile che avrebbe potuto essere richiamato dal marchio (Ocean’s, appunto) e dal genere.
In ogni caso, Gary Ross, il regista di questo film (oltre ad avere girato la saga di Hunger games che piacerà ai più) è stato sceneggiatore di Big, uno dei miei film preferiti con un Tom Hank ragazzino (che ebbe persino un remake italiano con protagonista Renato Pozzetto), e la sua opera prima come regista (nonostante la ‘scuffia’ di Renee Whiterspoon, cit. Matteo) è un altro imperdibile masterpiece, Pleasantville. Quindi, non possiamo far altro che amarlo comunque.

PS: Vi consiglio anche di recuperare tutta la filmografia dell’incredibile scenografo che ha lavorato a questo progetto, Alex Digerlando, che, oltre ad essere un ragazzo dalla fronte alta e la faccia simpatica, ha lavorato a titoli che non fanno altro che farmi esclamare ‘bellissimo! nooo! ma anche questo???’, quindi assolutamente da vedere, come Re della terra selvaggia di Behn Zeitlin, la serie True Detective di Cary Fukunaga, Broken Flowers di Jarmush, Across the universe di Julie Taymor, tanto per scriverne qualcuno.