‘Leopold Gursky cominciò a morire il 18 agosto 1920.
Morì imparando a camminare.
Morì in piedi davanti alla lavagna. […]
Oppure morì pensando ad Alma.
O quando scelse di non pensarci.
Davvero, non c’è molto da dire.
Era un grande scrittore.
Si innamorò.
Era la sua vita.’

Così la racconta in breve Nicole Krauss. È lei che scrive La storia dell’amore. È suo il racconto da cui è tratto il film con la regia di Radu Mihăileanu (il regista degli splendidi Trein de vie del 1998 e Il concerto del 2009). Léo Gursky (Derek Jacobi) un tempo era un ragazzo (interpretato da Mark Rendall) che amava scrivere. Aveva due amici, Bruno (Corneliu Ulici) e Zvi (Claudiu Maier), con cui si contendeva l’amore di una ragazza, la bella Alma (Gemma Arterton) che sembrava non voler scegliere nemmeno tra i loro scritti e, anche se le dita che carezzavano le sue nel campo erano quelle di Léo, il dubbio su chi fosse il ragazzo del bacio contro l’albero ci resta per un po’. Vivevano in Polonia allora. E Léo le promise che per il resto dei suoi giorni non avrebbe mai amato nessun’altra. Continuò a farlo anche quando Alma per scappare alla guerra se ne andò a New York.

Adesso è il 2006 e Léo, ultra sessantenne, vive lui stesso a New York e passa la maggior parte del tempo con il suo amico Bruno (Elliot Gould), lo stesso di allora, che vive al piano di sopra al suo appartamento. Sono due ebrei a Chinatown che sembrano vivere di espedienti. O almeno così ci sembra.

C’è un’altra Alma adolescente (Sophie Nélisse, quella di Storia di una ladra di libri tanto per capirci) a New York nel 2006. Vive con sua madre Charlotte (Torri Higginson a cui combina sempre incontri perché possa andare oltre la morte di suo marito e smetterla di passare il tempo a curare il giardino fumando) e suo fratello ‘Bird’ (il piccolo talentuosissimo William Ainscough che crede di essere uno dei 36 Giusti che per la tradizione ebraica sorreggono il mondo, un Lamed Vavnik appunto). Alma è innamorata del suo amico Misha (Alex Ozerov) con cui ha una comunicazione che prevede che ad ogni affermazione di lui lei ribatta con qualcosa che non c’entra niente e che respinge nonostante lo desideri tantissimo e nonostante gli incoraggiamenti costanti della sua amica Zoey (Jamie Bloch).
Charlotte ha sempre parlato ai suoi figli del libro La storia dell’amore che il loro padre le aveva regalato per i suoi 25 anni e che i due innamorati avevano cercato di seguire come esempio – direzione, indicazione – per tutta la loro vita insieme.
Alma, infatti, è stata da loro chiamata in questo modo proprio come la protagonista di quel racconto.
Come l’Alma del libro e come sua madre Charlotte, anche quest’Alma ambisce a diventare ‘la donna più amata del mondo’. Ed è proprio questo che le incasina la testa; ed è proprio  questa sua ricerca che la porterà da Léon.

Peccato che il film sia un po’ troppo lungo (anche se non pesa e non annoia) e didascalico; peccato anche che i giovani polacchi vengano interpretati dagli stessi che vestono quei panni da adulti e non riescano, quindi, a creare un dualismo credibile con i giovani newyorkesi (interpretati da veri adolescenti).
In ogni caso, La storia dell’amore è un film che riesce a far riflettere e a commuovere, spiazzando lo spettatore con alcune trovate (una in particolare che è bene non spoilerare) che ti stringono il cuore e te lo rallentano un po’.
La storia dell’amore parla di amore, appunto, di un amore totale che sopravvive oltre la distanza fisica, il tempo, l’allontanamento, la morte, la dignità; ma parla anche di eredità, di quello che trasmettiamo non sapendolo, di quello che di noi resta – come fosse un compito da rispettare – e che passiamo ad un altro nemmeno scegliendolo (la capacità di scrivere, la volontà di dedicarsi agli altri) e dei gesti che copiamo cercando di avvicinarci all’animo di chi ci sta a cuore (quel disco, quel panino); parla della paura contemporanea dell’abbandonarsi all’altro che ci fa fare il contrario di quello che vorremmo e della caparbietà della pretesa di ottenere il massimo, da se stessi e dagli altri. C’è tantissimo della cultura ebraica in questo film (il senso di colpa, la forte appartenenza e riconoscimento comunitario, lo straordinario humor) e c’è tantissimo di New York, della solitudine che i suoi abitanti possono avvertire ma anche dell’accoglienza che può esserci che vede realizzarsi l’incontro tra la storia di una ragazzina e quella di un anziano senza stupore. Solo città come New York (ce ne sono altre?) ti educano e abituano a incontrare senza alcuna sorpresa il diverso.
C’è in questo film, infine e soprattutto, l’importanza del racconto, la capacità di quello – anche reiterato – di sollevare un altro essere umano e c’è il potere di alcuni testi di dirci di noi stessi molto di più di quello che sappiamo…che quella cosa lì che abbiamo letto – scriveva un altro scrittore ebreo, David Grossman – arriviamo a non sapere più se l’abbiamo pensata prima di leggerla o il contrario.
Grossman concludeva con un concetto tipo: ‘Ma chi se ne frega poi se prima o dopo. Alla fine vengono tutte dalla stessa parte, che è la verità’.