Sono contenta di rimettere il sedere su una sedia e di scrivere di una visione che mi ha fatto fare pace con il timore dei posti chiusi, perché in essa ci ho trovato buona parte del respiro che cerco e una riflessione sul silenzio, l’attesa, la cura, lo sguardo, la leggerezza del muoversi in uno spazio condiviso.

Non sono una grande amante dei documentari sugli animali, non li preferisco rispetto ad altro, ma, a mio parere, La pantera delle nevi di Marie Amiguet e Vincent Munier (più di lei che di lui, anche se è lo sguardo di lui che lei segue) con Sylvain Tesson (un altro pazzo con la faccia devastata che ha scritto un libro che ha mosso la scrittura anche del documentario) è un prodotto eccelso, uno di quelli che ti prende, che compie la magia dello spegnere tutto e lasciarti nel silenzio insieme ad altra gente, colto da quella che Herman Hesse chiamava la ‘maravilla’ (almeno secondo una di quelle affermazioni fatte nel camerino di un teatro del sud Italia da un grande attore che cercava di far arrivare qualcosa alla me di 15 anni). La ‘maravilla’, che, quando prende un gruppo di persone e non un singolo, per me è un piccolo grande miracolo. Ferma il tempo, annulla le differenze e ci fa sentire tutti dalla stessa parte e allo stesso punto (ossia, piccolissimi e grati della bellezza che troppo spesso diamo per scontato).

La pantera delle nevi racconta del viaggio di Sylvain Tesson, uno dei pochi viaggiatori che ancora esistono e che non si sono trasformati in turisti – come ci ha raccontato lo scrittore Paolo Cognetti che ne ha doppiato la voce nel film – per seguire l’invito del fotografo naturalista Vincent Munier di unirsi alla ricerca di una quasi mitologica pantera delle nevi, che si credeva estinta e di cui, invece, esiste ancora qualche esemplare nelle montagne oltre i 4000 metri nella contea di Yushu, in Tibet.

Il documentario si apre nel rifugio da cui sono partiti i due francesi con i commenti di due abitanti di quelle zone. Sono saliti presto, non sono ancora scesi. Mi è sembrato come se fosse la montagna stessa a parlare di loro, un po’ con rispetto perché non sono sicuramente due sprovveduti – soprattutto Munier che da anni si occupa dell’osservazione degli animali nel loro habitat naturale – un po’ soppesando la follia del fare una cosa del genere, sia in termini generali che per il rischio a cui si va incontro. Un po’ anche perché loro, gli abitanti, sono compresi dalla montagna; essa fa parte della loro quotidianità, come vedremo anche in un momento del documentario in cui viene rotta la pretesa ‘sacralità’ di quel posto con una piccola ‘invasione’ da parte dei bambini che ci vivono (e che, senza farsi molto problemi, mettono le mani tra le cose del fotografo e trovano la sua musica che fanno partire ad alo volume – by the way, ‘la musica di Munier’ è Just so di Agnes Obel che canticchio da giorni). É anche molto significativo far introdurre qualcuno che si muove in un luogo ‘per vedere’ da qualcuno che lo ha visto, a sua volta. Un concetto che è anche parte della riflessione generale di questo documentario.

Il resto è guardare il loro racconto della montagna e tutto quello che comprende. Il resto è l’attesa di qualcosa che potrebbe arrivare o no. E il fatto che la pantera si trovi o meno per me non è assolutamente superfluo. Anzi. Io sono del team ‘meglio che non si veda’, qualunque sia quello che stiamo cercando, l’alieno, l’amore, la musica che non si è mai sentito da nessuna altra parte. Per me quello che noi pensiamo sia, è meglio di quello che potrebbe essere e deluderci.

In ogni caso, il centro di questo film è altrove, nelle discussioni sull’infinito, sul timore della morte e della nostra piccolezza nel creato, sullo stare soli e in silenzio, sulla capacità di fare poco rumore quando ci si muove, sulla pazienza, la pace, sull’armonia e l’assenza di essa nelle città che abbiamo costruito, sulle cose che abbiamo disimparato, sul nostro essere divenuti poco animali e tutto quello che comporta, sul fatto che ‘la terra – purtroppo, sa di essere umano’, sul viaggio vissuto come uno sfuggire, sul bisogno di annusare i posti che viviamo (Munier annusa le pareti delle grotte e il mio amico Pat annusava il vento al risveglio per capire come sarebbe andata la giornata sul lago Huron), su tutto l’incredibile che ci circonda e che ci dimentichiamo di vedere. E sulla frase che Sylvain scrive, come sintesi del tutto: ‘Ho camminato e sono stato guardato, senza rendermene conto’.

Come siamo piccoli. Ma che bello.