Coda – I segni del cuore ci è arrivato in valutazione tra i mille titoli che arrivano in valutazione ad una redazione televisiva perché si dia un parere sulla trasmessibilità di quel titolo sul proprio canale. Ci è arrivato come Coda, senza la vera coda dell’adattamento del titolo in italiano che non è male, considerando il rimando alla lingua dei segni, ma accantonando del tutto, come sconfitti, la possibilità di chiarire il titolo originale che resta così, senza definizione, appeso come se non ci fosse dato di capirlo. Forse, punendoci, perché in effetti non lo avevamo capito questo titolo o avevamo – e questo avevamo si riferisce in effetti solo a me – considerato troppo personale, specifico, il proprio attaccamento alla solita complessa e straziante (da valle di lacrime) dinamica padre – figlia che ogni volta mi fa parteggiare per un racconto al posto di un altro (una storia che si ripete da Pippi Calzelunghe a Batman, a Contact di Zemeckis, Somewhere di Sofia Coppola, Interstellar di Nolan). Vince l’Oscar del miglior film del 2022 un titolo di cui molti si erano chiesti i perché persino della nomination. L’Academy, come è già accaduto altre volte (non posso non pensare alla vittoria di Moonlight di Barry Jenkins su La la land di Damian Chazelle), fa una scelta politica e e fa alzare la statuetta ad un film (remake del francese La famiglia Beliér di Éric Lartigau) che racconta la storia di una ragazza che ha il sogno di diventare una cantante e che è l’unica udente in una famiglia di non udenti, CODA – I segni del cuore (coda sta per ‘child of deaf adults’, ossia ‘figli di sordi’, tematica che mi aveva molto colpito nella lettura dell’autobiografico finalista del premio Strega di qualche anno fa, La straniera di Claudia Durastanti – vi lascio rimandi che possono avvicinarvi alla sensazione di pancia con la quale mi sono trovata di fronte al film per spiegarmi meglio) diretto da Sian Heder. La regista sposta la campagna francese del film originale sui pescherecci del Massachussets (Gloucester è a poca distanza da Manchester by the sea, località e capolavoro nel quale le parole dicevano tutto fuorché quello che volevano dire e i rapporti tra le persone erano segnati da distanze fisiche e da silenzi, propensione forse di quell’ambiente e quegli orizzonti) in un racconto – finché la voce di Ruby (la britannica Emilia Jones) non esplode oltre il senso di colpa di un desiderio quasi offensivo nei confronti di chi più ama – in cui quelli che fanno più ‘casino’ ed occupano più spazio con le loro personalità pazzesche sono proprio i suoi genitori e suo fratello, i sordi del racconto, quelli di cui ci si approfitta o che si considera più raggirabili, quelli le cui difficoltà dovrebbero obbligare a fare un passo indietro – eppure – quelli con la stessa problematica ma tutti diversi, perché persone diverse, a prescindere dall’handicap. Un film universale nel suo racconto particolare. Un film piccolo, complicato come tutti i film in cui buona parte del racconto è in lingua – quella dei segni, e per di più americana – e nell’altra si cantano canzoni che non verranno doppiate in una traduzione italiana (un po’ perché con i classici non si fa e un po’ perché non si ha il budget della Disney nella contradditoria contezza di essere in un Paese in cui solo ora ci si sta abituando ai sottotitoli e ai film in originale grazie alla diffusione di Netflix) quasi da pomeriggio di Italia 1, tra capolavori realizzati con budget da capogiro. Un premio che plaude a degli attori non udenti straordinari (Troy Kotsur, che interpreta il padre di Ruby, vince anche l’Oscar come miglior attore non protagonista) e che ci obbliga (perché un Oscar è un faro accecante nel buio, l’indicazione ‘ ti devi occupare di questa cosa qui’) a riflettere sulle differenze, ad assumere il punto di vista di chi guarda una persona amata mentre vive – e canta – senza sentirla, provando a percepire le vibrazioni di tutta quella che è – pancia, voce, cuore – con lo sforzo pazzesco del porre una mano sul petto (quando qualcuno si è permesso o avete permesso un gesto così intimo ad un altro essere umano?) e lottare contro un limite fisico, quel lasciare andare, mettere in discussione anche se stessi sul presente e sul futuro (come l’educarsi a trovare strade nuove per il supporto a distanza e il permettere qualcosa su cui si può non essere d’accordo) che solo chi ti ama – ma ti ama davvero – riesce a sopportare di fare.