Cerco sempre di non leggere niente di un film prima di averlo visto. Alle volte, mi presento in sala senza nemmeno sapere il titolo o gli interpreti della storia che andrò a vedere. E cerco di farlo soprattutto quando il film in questione ha vinto qualcosa. Per non farmi condizionare. Per perdermi completamente. Mi è anche capitato di posticipare la versione di qualche ‘capolavoro’ (che spesso a me non è sembrato tale, un titolo su tutti La La Land di Chazelle, uno dei titoli, a mio parere, più sovrastimati della storia) al momento per me più opportuno per accoglierlo.

Così, senza sapere quasi nulla, mi sono seduta in un’affollatissima sala all’anteprima milanese di Triangle of sadness del regista svedese Ruben Östlund, che torna a portarsi a casa la statuetta più ambita del Festival del Cinema di Cannes e a prendere in giro noi e la nostra società, in un modo potentissimo e facendoci passare attraverso tutta la gamma delle emozioni possibili (rabbia, commozione, riso, disgusto, paura) come aveva già fatto con lo splendido The square (l’immagine dell’uomo scimmia su un tavolo di una sala ricchissima non credo sia possibile da dimenticare, così come quel solo suo respiro bestiale che spegne tutte le risa d’imbarazzo dei presenti in sala e spegne tutto). 

Triangle of sadness, il ‘triangolo della tristezza’ del titolo, è quel punto a metà tra gli occhi e il naso che si riempie di rughe con il passare del tempo, almeno secondo i commenti di chi sta selezionando dei modelli all’inizio del film, in una scena davvero comica, ma credo tristemente reale, in cui viene introdotto il personaggio di Carl (uno strepitoso – ma chi non lo è in questo film? – Harris Dickinson), un modello non più giovanissimo che, invece, è impegnato con la star della moda del momento, la modella Yaya (la stupenda sudafricana Charlbi Dean, scomparsa prematuramente quest’estate a New York per un malore improvviso) in un rapporto complesso e multivalente, in cui, all’inizio soprattutto Carl – ma poi vedremo che si tratta di entrambi – si ostina in alcune prese di posizione sui ruoli, ma poi si lascia trascinare dalle possibilità che il successo porta a Yaya, come questa crociera super esclusiva (sullo yacht Christina O che è appartenuto a Aristotele Onassis nel periodo della sua relazione con Jacqueline Kennedy) a cui lei è stata invitata a partecipare gratuitamente come influencer e in cui il racconto di queste due figure si allarga e intreccia alla storia personale e collettiva di una serie di personaggi strambissimi, tutti ospiti ricchissimi dell’esclusiva crociera e di un comandante comunista alcolista (interpretato da Woody Harrelson, l’attore più noto in generale del cast), nella serie di assurdi eventi che li vedranno protagonisti.

Facendo seguire dei momenti e discussioni più o meno serie a momenti comici e disgustosi, recitati divinamente (la vendetta delle vendette, l’assistere all’assenza di controllo di qualunque liquido corporeo e degli sfinteri di tutti i miliardari durante una tempesta che riporta alla mente il film L’aereo più pazzo del mondo, cult comico degli anni ’80 con la regia di Zucker/Abrahams/Zucker) fino ad arrivare all’assurdo (davvero da mettersi le mani nei capelli e pensare ‘non è possibile che abbiano portato la storia in questa direzione’), Östlund riflette sui ruoli che occupiamo nella società e sul ribaltamento di essi, sul saper fare, sull’apparire, sul potere, sulle contraddizioni che ognuno di noi porta con sé, sugli slogan, sui falsi slogan, sul cambiamento, sulla casualità, la sfortuna, sulla presa di consapevolezza. E che altro? Non voglio farvi spoiler perché Triangle of sadness è una pellicola imperdibile per chi ama il cinema. Qualunque cosa possiate pensarne poi.

Io ho riso tantissimo, sono stata anche un po’ male e ho corso forte anche – forte fortissimo – con nella testa ancora Marea di Fred again e The Blessed Madonna che è quello che ti resta nelle orecchie e nel cuore quando arrivi ai titoli di coda.