Robert (Jacob Tremblay, straordinario pugno nello stomaco in Room di Lenny Abrahamson) è un ragazzino di undici anni. Aspetta di vedere il suo idolo, John F. Donovan (Kit Harington, John Snow de Il trono di spade) il suo attore preferito, protagonista di un serie tv di fantascienza di enorme successo (alla Buffy, tanto per capirci) a cui si è aggrappato nel periodo del divorzio dei suoi genitori e del trasferimento con sua madre (Natalie Portman) in Inghilterra, mentre veniva bulleggiato per l’essere diverso e per la sua volontà di divenire, un giorno, un attore, proprio come il suo idolo. Ma, mentre Robert lo aspetta in un bar di New York con sua mamma, John F . Donovan viene ritrovato morto nella sua camera d’albergo. Dieci anni dopo, una giornalista del Times (Thandie Newton, Maeve della serie Westworld) si trova a Praga e inizia con malavoglia, sottostimando l’incarico affidatole dal suo capo redattore, ad intervistare Robert, ormai adulto (Ben Schnetzer) sul bestseller di cui è autore che non è altro che la trasposizione della sua corrispondenza quasi decennale proprio con John F. Donovan mentre era bambino.

Una trama non proprio originale, piena di dettagli non del tutto necessari (ci aggiunge qualcosa l’ambientazione ceca dell’intervista?) arricchita da una colonna sonora che strizza l’occhio alla mia generazione, un cast stellare e la solita impeccabile regia, danno al solito bravissimo Dolan, al suo esordio in lingua inglese, l’occasione di indagare nuovamente i rapporti umani prendendo come spunto il se stesso bambino e una lettera a Leonardo Di Caprio a cui l’attore hollywoodiano non ha mai risposto.
A chi avete mostrato davvero chi siete? L’immagine che gli altri hanno di voi a cosa è dovuta e perché persiste? Come si può essere davvero se stessi se si è stati concentrati per lungo tempo ad essere altro o ad accontentare l’immagine che altri avevano di noi?
Si dice che un buon fan sappia tutto del suo mito. Quanto più sembra essere estesa la sua conoscenza sulla vita e l’opera dell’artista tanto più pare certa la bontà del ruolo di cui un fan, senza che nessuno gliel’abbia chiesto, si è fatto carico. Ma siamo sicuri che corrisponda tutto al vero? Un film ‘doppio’ sulla difficoltà dell’essere sinceri con se stessi e con le persone che più si ama, sulla purezza che sta alla base del rapporto tra un uomo e un bambino, sulla passione per l’arte, sull’incomunicabilità nonostante si sia esperti nell’espressione e nel sentimento, sul senso della protezione dell’altro, sull’onestà, sulla spietatezza di alcuni ambienti lavorativi, sulla capacità dei più piccoli – che potrebbero sembrare più fragili – di andare oltre di sé e dei nostri errori, sull’accoglienza oltre tutto, sulle madri e sui figli. Sul testimone, che si spera qualcuno un giorno sappia prendere.
Personalmente ho pensato a Amy Wineouse e a Kurt Cobain, al chissà se poi davvero non si poteva evitare che se ne andassero così. E ho pensato che il mio John F. Donovan è nella vasca, abbracciato a suo fratello, che canta a squarciagola, al sicuro, Hanging by a moment dei Lifehouse.
In quella vasca, potevo esserci anch’io con mio fratello. Potevamo essere noi stessi. Realmente noi. La morte e la vita di John F. Donovan sarebbe stata una traduzione migliore.
Perché non c’è morte senza una vita. E quella vita a me Xavier Dolan l’ha fatta vedere.