Credo di averla quasi rovinata quella videocassetta. È una delle pochissime di cui ricordo la copertina, foglie gialle di un autunno che per me appartiene solo alle università e agli ospedali in cui si fa ricerca. Dei ragazzi in una divisa scomposta e sudata portano in trionfo un uomo. Un professore.
Per me non c’è mai stato un docente all’altezza di John Keating. Per me non potrà esserci un altro film sull’insegnamento all’altezza de L’attimo fuggente di Peter Weir. Sarà stato per Robin Williams, perché scrivevo poesie e volevo fare l’attrice, perché ero innamorata di Ethan Hawke o perché ho sempre preferito il dramma su tutto ma quell’invito a rendere straordinaria la propria vita è un urlo nella pancia che continua a spingermi a riconoscere chi sono.

Nei successivi trent’anni di cinema pochissime altre classi, quella di  Louanne Johnson – Michelle Pfeiffer in Pensieri pericolosi, della cui colonna sonora la canzone Gangsta’s Paradise di Coolio ha segnato un decennio – e quella dei piccoli alunni di Monsieur Lazhar – candidato come miglior film straniero agli Oscar del 2012 – mi hanno smossa così. Eppure la locandina di Arrivederci professore, con Johnny Depp che fa un passo verso il vuoto dal libro che finora è stato la terra che lo ha sostenuto, mi aveva dato speranza.
Il film racconta come il professor Richard dica arrivederci alla sua vita dopo aver scoperto di essere malato di cancro ad uno stadio avanzato. È un docente rinomato che ha fatto una buona carriera ma che, a un certo punto, ha perso entusiasmo nei confronti di tutto ciò che lo circonda. Raggiunta una certa, generica, stabilità ha semplicemente lasciato scivolare le cose. Sa da tempo che sua moglie (Rosamarie DeWitt, attrice che io considero bellissima) ha un amante, che è, guarda caso, il rettore della sua università (Ron Livingston) e non ha mai detto nulla, forse per non far cambiare le cose; ha una figlia adolescente (Odessa Young) che afferma di essere lesbica mentre sua madre considera questa ‘una fase’ e Richard si limita a sopravvivere galleggiando sulle discussioni tra le due. Come fosse il cane di casa. Pronto a scappare in un’altra stanza all’occorrenza. Richard finora si è occupato dei giorni con un sarcasmo e un distacco di cui non ricorda più le ragioni. Ma poi, quando sa che è arrivato alla fine, monta dentro di lui una sola espressione: ‘Fuck’. E allora tutto cambia.

Riflettere sul fatto che, sapendo che potrebbe saltare tutto, cambieremmo il 90% del nostro modo di rispondere anche alle domande più banali e prenderemmo scelte diverse su cose che ci sono andate bene fino a qualche secondo prima, è un tema molto interessante.  Personalmente, però, ho trovato il film molto volgare, non ho capito il senso della ricerca di un effetto comico del genere in un contenitore tragico e ho trovato la definizione dei personaggi e la struttura che regge il racconto molto superficiale e da commedia di basso livello; nello specifico, il rapporto che Richard crea con una selezione dei suoi studenti, non mi è sembrato né rivoluzionario né formativo ma in certi momenti addirittura squallido e, anche nella scelta dei caratteri (la ragazza intelligente interpretata da un’attrice più nota degli altri – Zoey Deutch – che prenderà una cotta per lui; l’attore nero gay; l’aspirante intellettuale che non sa come vestirsi) veramente molto banale. Peccato, perché si poteva contare su un cast di tutto rispetto e, soprattutto, avrebbe potuto portare a ben altri orizzonti la possibilità di tracciare strade dove non ci sono.