I letti del reparto di Medicina ad alta intensità di cura sono 43, di cui 14 codici rossi. Sono vite che bisogna tenere ancora più strette delle altre. Il numero degli infermieri varia da cinque a nove a seconda del turno, gli OSS, al massimo, sono tre.

Su un’ambulanza  possono entrare al massimo sei persone, quattro soccorritori, un paziente e un accompagnatore.

Oltre questi, c’è tutta la vita che passa attraverso e accanto, i parenti e amici che vengono a fare visita a chi è soccorso, il personale che mobilita i pazienti, chi consegna loro cibo, gli specialisti di altri reparti, delle suore, il tizio che porta i depliant della consegna pizza a domicilio, i curiosi, quelli che vorrebbero aiutare ma non sanno che. Una movimentazione di persone continua. Vita che entra ed esce da due portelloni dell’ambulanza e da due ingressi del reparto.
E tu, sei lì.

Il mio approccio agli ospedali e al soccorso ha a che fare con la mia infanzia. Mio padre, mia madre, i miei fratelli. Sono tutti medici. La mia prima brutta parola è stata oligofrenico; i nomi dei colori sono ancora legati a sostanze come la penicellina o il mercurio cromo. Il rumore delle dita che battono sulla testina di uno stetoscopio, la pressione delle olivette sui timpani, l’odore dell’alcol, di una ferita, del gel per l’ecografia mi riportano ai capelli ricci di mia madre tra le mie dita, alla canottiera di mio fratello Tommaso e a un tempo che non c’è più ma che ci ha fatti ciò che siamo. Al tempo trascorso nel parcheggio davanti il pronto soccorso ad aspettare papà. Che avevo dimenticato.

Un ospedale è lo schiaffo della vita in piena faccia. Non puoi mai essere pronto. Ci si aspetta da te una risposta più veloce del tuo pensiero. Ma, come su una barca, il tuo corpo sente il vento prima che te ne renda conto. Nemmeno il tempo di dire buongiorno e sei già in contatto. Tra le dita, un corpo che non è il tuo. Da muovere, ripulire, valutare, medicare. I corpi delle persone contengono la storia. Hanno dentro di sé il passato e il futuro. Il segno di tutti quelli che hanno amato, di tutti i luoghi che hanno visitato. Ogni cicatrice è qualcosa che è stato e che ha lasciato. Il tocco a volte è magia. O maledizione.

Su un’ambulanza i battiti sono quasi sempre più veloci ma, quando sei consapevole del dopo, non puoi più fare come se non. Sai perfettamente che, anche tu, su quei corpi stai lasciando un segno. Forse il paziente lo dimenticherà, forse non era nelle condizioni per poter trattenere il tuo sguardo su di lui, la stretta delle vostre mani, ma il suo corpo no. Il suo corpo conterrà per sempre anche la traccia di quel momento di te.

Dal 12 maggio 2019 ho iniziato un tirocinio in un reparto in ospedale. Quasi in contemporanea ho iniziato anche il tirocinio come soccorritore di 118. Solo adesso riesco a conservare un po’ di energia per permettere al cervello di elaborare la pratica, il gesto quasi quotidiano. Per conservare un minimo di energia per raccontare altro. Sto imparando un alfabeto emotivo nuovo. Seguo gli altri – volontari e non – che fanno questo lavoro, registro tutto, cerco di copiare, di aggiungere uno sguardo consentito dal mio dedicarmi solitamente ad altro e mi chiedo come mai nella sala buia di un cinema, che resta sempre il posto senza tempo in cui ritornare a me, sia così difficile veder trasferito tutto questo. Ci sono solo alcuni momenti, che mi tornano nella pancia – un angelo di fronte a Maggie (Meg Ryan in City of Angels) che piange sui gradini delle scale dopo che non è riuscita a fermare – cosa? – Dio? – salvando una vita ad un paziente nella sua sala operatoria; Patch Adams; i due protagonisti malati di Knockin on heaven’s door  di Thomas Jahn che non hanno mai visto il mare (vi prego, recuperate questo film tedesco splendido). Tante, tante serie. Ma quell’odore e quello spazio lì è veramente difficile da trasferire.

Credo che la malattia o l’incidente sia una specie di dimensione altra, quella in cui ti riduci all’essenza del tuo essere, quella in cui non sei padre, né marito, madre né moglie, figlia o figlio. Puoi permetterti la paura. Perché c’è chi può accoglierla. Tu, volontario, hai tutta la forza per fare quella piccola immensa cosa che è stare. Conservare il ricordo dei sogni di un paziente che è passato lì per un attimo per lasciarli a sua figlia prima che vada via; il ricordo del sorriso del malato di alzheimer quando la sua testa gli ha consentito di riconoscerti; l’espressione di un’infermiere dopo che ha salvato la vita a un uomo; la barba di cotone che un OSS ha fatto per il signore che sta male da quando gli abbiamo raso il viso; il ‘sei un angelo’ letto in silenzio sulle labbra di un paziente che non può parlare; la dignità di una persona che sta andando via ma che vuole fare meno rumore possibile.

Siamo tutti capaci di questa vita. A volte, dobbiamo solo ricordarlo.

Grazie a tutti gli infermieri, gli OSS, i soccorritori e i medici che ogni giorno affrontano l’altra dimensione, quella in cui si può avere paura, si possono non avere ruoli, limitarsi all’essere esseri umani e in cui, troppo spesso, si ci può ritrovare soli, come se gli altri, i sani, non riconoscessero la vita anche nella morte, nel dolore e nella malattia.