Il corpo di un attore è lo strumento. La sua faccia, la sua voce, tutto se stesso – e anche quello che va oltre di sé – va a disposizione del ruolo, della vita che questi si trova a dover interpretare. Per questo motivo, per me, la visione di Judy di Rupert Goold (regista che ha alle sue spalle un film superbo, True story, con protagonista James Franco, Felicity Jones e uno degli attori più sottovalutati della storia, il per me grandioso, Jonah Hill) è stata una coltellata al cuore. Judy racconta l’ultimo periodo della vita dell’attrice e cantante Judy Garland appunto, quando, senza troppe possibilità di scelta, è costretta a lasciare i suoi due figli più piccoli, Lorna (interpretata da Bella Ramsey, Lyanna Mormont nella serie Il trono di spade) e Joey, al padre, il suo ultimo marito, il produttore Sid Luft, per accettare un ingaggio di cinque settimane di concerti oltreoceano, al night club Talk of the Town, a Londra, dove la star che aveva impersonato adolescente Dorothy ne Il mago di Oz di Victor Fleming è ancora considerata una stella. La sua carriera in patria, infatti, ha subito un collasso. Affinché Judy divenisse la star che sua madre aveva sognato fosse fin da bambina, la piccola è stata rinchiusa in un mondo di adulti, tolta a qualunque rapporto normale per la sua età, e, soprattutto, portata ad imbottirsi di pillole che la tenessero sveglia e che le bloccassero l’appetito dal produttore della Metro Goldwyn Mayer con cui aveva una esclusiva, Louis B. Mayer, da cui poi sarà dipendente tutta la vita e che contribuiranno a spingerla verso una serie di abusi e di problematiche che a poco più di 40 anni ce la fanno ritrovare, nel racconto filmico, quasi sul lastrico e in condizioni di salute pessime.

Renée Zellweger interpreta Judy Garland in un film intenso che parla di solitudine e grandezza e che restituisce a un personaggio quasi dimenticato (mai dimenticheremo Il mago di Oz ma mi chiedo a chi della mia generazione fossero note le circostanze della sua tragica e prematura scomparsa) la dignità che merita, anche e soprattutto in considerazione dello straordinario talento e passione per l’arte, per l’oltre da sé, appunto, che supera ogni limite, ogni tentativo di autosabotaggio, di autodistruzione. Ogni volta Judy e il suo amore per gli altri, la sua capacità di apprezzare il diverso, la sua fiducia, anche un po’ ingenua, nei confronti di chi sembra vedere un pezzo di lei, la portano oltre i suoi errori, il suo essere un semplice essere umano. Un esempio è il momento in cui Judy porta i suoi figli, bambini, ad esibirsi con sé, sfruttandoli per ottenere quello spazio sul palco, per fare il numero e guadagnare (di più o la stessa cifra, che importa) ma è chiaro allo spettatore che Judy si comporta in questo modo perché quello è il posto più sicuro che può offrire loro, perché lei è presente o anche perché pure con lei è stato fatto così; perché non sa fare diversamente. E quindi, a te viene di perdonarle tutto. Le perdoni le scelte scellerate, la bottiglia di troppo, i compagni inadeguati (tutti attori troppo ‘pettinati’ e patinati, con dei costumi troppo puliti per far parte della vita vera, nella cui rappresentazione forse, personalmente, avrei preferito un maggior distacco, una maggiore ‘sporcatura’ per differenziare quei momenti dal ricordo di un’adolescenza da set, in cui la pausa da merenda è falsa come tutto quello in cui è inserita). Le perdoni tutta la sua fragilità perché sai che la sua voce può spaccare i vetri.

Judy era l’occasione e il ruolo giusto perché Renée Zellweger dimostrasse la sua enorme capacità attoriale, la sua completezza di attrice (la Zellweger è anche un’ottima cantante e lo dimostra anche in questo film come aveva già fatto in Chicago di Rob Marshall) che, comunque, l’hanno portata a vincere l’Oscar di quest’anno come migliore attrice protagonista. Peccato però per questa dannata chirurgia plastica che ha ridotto la sua espressività facciale e che l’ha portata ad una diminuzione degli strumenti a sua disposizione. Peccato davvero. Perché avrebbe potuto fare ancora di più.

La sceneggiatura del film prende spunto da un pluripremiato musical, End of the rainbow di Peter Quilter, in scena per la prima volta a Sydney nel 2005, nel 2006 in Edimburgo, dal 2010 in Inghilterra con l’attrice Tracie Bennett (la stessa di Hairspray) nel ruolo di Judy, anche nella versione americana in scena dal 2012. Nel 2013, c’è stata una versione italiana dello stesso spettacolo, con la regia di Juan Diego Puerta Lòpez e Monica Guerritore nei panni di Judy. La regia è alquanto classica, non particolarmente entusiasmante. Eppure, alcuni momenti di questo film non sono proprio riuscita a staccarmeli di dosso. Judy nell’armadio che riesce quasi a essere invisibile per rassicurare i suoi figli (e per un momento, lo senti anche tu che lei ci sta credendo davvero che potrebbe restare lì dentro per sempre); Judy a cena da due suoi fans, come una stella nel salotto che non si rende conto della grandezza di quel gesto nella vita di quelle persone; quelle due persone (Dan è interpretato da un attore straordinario, Andy Nyman a cui spero venga dato presto un ruolo in cui dimostri le sue capacità), gente normale che si emoziona e si riconosce nell’opera di qualcuno e trova riparo nell’emozione che l’arte provoca, trova rifugio da tutto il peggio che la vita e l’umanità possono buttarci addosso.

E forse in questo sta il senso di questo film, colto benissimo dal discorso di ringraziamento di Renée Zellweger alla premiazione degli Oscar: ci sono delle persone che riescono a fare delle cose talmente grandi che possiamo vedere e riconoscere tutti. E di fronte a quella grandezza, alla palesità di quel gesto o di quell’emozione, siamo tutti uguali, diventiamo tutti una cosa sola, a prescindere dal sesso, dall’età, dalla cultura; quando una musica ti arriva al cuore, chiunque tu sia, puoi diventare una cosa sola anche con me. E chiunque tu sia il tale o la tale che riesce a regalarmi questo momento assoluto, di unità, di immensità e di infinito, io non potrò che sostenerti e cercare di sostenere la tua voce con la mia, quando e se avrai paura di alzare il volume e cantare la tua canzone.

Signora Garland, Lei è stata sicuramente tra le eroine che hanno la capacità di unirci e di definirci, questo premio è sicuramente per Lei’.
Renée Zellweger, miglior attrice protagonista, Oscar 2020 per il ruolo di Judy Garland in Judy.