Mi capita ogni tanto. Mi fermo sulla strada, riprendo consapevolezza dei miei polmoni e del mio peso specifico e sto in quel momento. La sento Milano che mi sostiene. Mi conosce. Lo ha fatto per tanti anni, mi ha prestato a tanti suoli, mi ha presa in prestito a sua volta dal mio Sannio e dal mio mare. Mi capita ogni tanto. La sento che torna da me e mi fa sentire che ce la fa. E solo quando la sento sotto i miei piedi, solida, riesco a lasciare andare: mi fermo un po’ di più al semaforo anche se è verde in questa città silenziosa come la morte. Mi fermo con la bici, come se non potessi respirare, anche se in questa quarantena la natura sembra stare cercando di riprendersela e potrebbe spostarmi con uno suo, di sospiro. Ci sono solo io. Verde, rosso, verde. Non succede nulla. Resto lì. E piango. Per un po’.

Quando sei su un’ambulanza (e sei dietro dove sono quasi sempre io) il mondo fuori è a strisce. Potrebbero farci scivolare una pellicola cinematografica su quelle strisce. Il cielo da lì ti fa sentire più basso di quello che sei, come quando eri bambino e avevi una visuale diversa dal mondo degli adulti. Riconosci pezzi che hai vissuto più o meno distrattamente (quell’angolo dove hai schizzato un tuo amico con l’acqua di una pozzanghera, quel bacio rubato schiacciandoti al muro di quell’abitazione in quella via, le megacamminate con il compact disk portatile e dentro il cd che ti aveva fatto tuo fratello prima che partissi per il Nord per appropriarti di quella città, il ponte del circolo di canottaggio da cui ci si tuffa a fine stagione).
Io poggio la testa sul portellone. Ho bisogno di far finta che posso dormire, come per fregare tutti, anche me stessa, e ricaricarmi ancora un po’ per essere pronta. Pronta. Più pronta. Ho paura.
Areu monti è dietro l’ospedale di Bergamo. Siamo l’ausiliaria dell’ausiliaria. Ci sono altre macchine prima di noi. Di solito vuol dire che non farai probabilmente niente, che è sempre quello che uno si augura, far passare le ore, mangiare qualcosa insieme e poi a casa. Invece. Sono tutti molto tesi quelli di qui. Ci mostrano il percorso ‘pulito’, ‘sporco’. Da dove si entra, da dove si esce, dove si può sostare, dove no. Continuano a ripetere un grazie pieno di consapevolezza e di allerta. Un grazie che vorrebbe anche essere un ‘fai attenzione’ e un ‘ma sei sicuro?’ e ancora ‘ma farai attenzione bene?’ e un ‘guarda che qui è…’

Cos’è Bergamo ad inizio marzo 2020? Cosa sono i paesi attorno alla città arroccata dove le ambulanze corrono quasi in fila e la fretta della risposta e della corsa incontro alla chiamata si alterna al tempo quasi rarefatto della vestizione, svestizione e sanificazione, una pratica che abbiamo imparato pensando non dovesse toccarci mai? Scendo dall’ambulanza insieme al mio capo equipaggio. C’è un giardino davanti la guardia medica con delle giostrine e delle panche. Sono piene di adulti e bambini con addosso le mascherine che ancora non sono obbligatorie. Ci fissano tutti come se appartenessimo ad un altro pianeta. Lego un filo tra i loro sguardi e l’emblema della mia divisa; è come uno scudo protettivo, appartenenza, riconoscimento. Si sciolgono come se fossi speranza. Per loro non conto io ma quello che ho sul braccio e sul petto, ciò che rappresento e che va oltre di me. Anche se ne hanno viste tante di queste croci, ancora sanno che faremo tutto il possibile. Ci basta vedere il medico di guardia bardato per farci fare retromarcia e andarci a vestire. La vestizione è lenta. Il mio capo equipaggio e il mio autista continuano a cercare i miei occhi per tenersi attaccati alla realtà e per riportare anche me qui, in questo momento. Come se avessimo bisogno continuamente di dirci che è tutto vero. Come per chiedere attenzione e offrire attenzione. Rallentare il peso di questa cosa sulla pancia con l’esattezza della procedura. Come piloti di voli internazionali controlliamo ogni spia, ogni segmento, perché tutto sia perfetto e che Dio ce la mandi buona.
Il medico balla dentro tutta la roba protettiva che ha addosso. Probabilmente guardandomi pensa lo stesso di me ma non me lo dice. Ci chiede però da dove veniamo. Siamo un milanese, una sannita e un bulgaro. Sembriamo una barzelletta. I nostri accenti fanno sorridere anche la signora che dobbiamo trasportare. Respira come un pesce, un pesce senz’acqua. Un essere umano con qualcosa di rotto dentro. Ci sono grati perché veniamo da lontano. La signora è tanto più giovane di mia mamma. I suoi occhi azzurri però mi guardano come se fossi sua figlia che ha mandato via di casa per metterla al sicuro. Mi spiega che qui sono tutti malati. Sento il calore della sua fronte sotto i miei strati di guanti e mi sento come se stesse cercando lei di proteggere me. Quando arriviamo al Pronto soccorso di un altro paesino, quello che ha posto per lei dopo più di mezz’ora di corsa, attaccati tutti mentalmente, secondo dopo secondo, a quell’aria che sta tenendo in vita lei, dobbiamo aspettare fuori che ci diano il permesso di ricoverarla secondo la nuova procedura di emergenza. C’è un signore fuori la porta, seduto su una sedia, con addosso una metallina, una coperta termica di quelle che si vedono sempre nei servizi televisivi sugli sbarchi dei migranti. Sta lì. Chissà da quanto.

Quando arriviamo dal signor Ciccio siamo in un’area di villette residenziali. Il capo equipaggio si veste sotto gli sguardi di tutta la gente richiamata all’affaccio dalla sirena. Alcuni sono usciti e ci guardano dai cancelli. Non so se sono loro ad essere in gabbia o se lo sono io. Cerco di assicurarmi che il mio capo equipaggio faccia tutto bene. Metto gli strumenti che ci servono per prendere i parametri in un sacchetto monouso e lo seguo a debita distanza. I familiari della persona che ci ha chiamato sono sulla porta e ci confermano le condizioni di Ciccio – così si presenta lui, così lo chiama il cognato – a distanza. Il mio capo equipaggio si volta ma ho già capito e sto già andando a vestirmi anche io. Faccio fatica perché sono costretta a tenere la divisa intera sotto la tuta perché è parte dei dispositivi di protezione individuale. Fa caldo, la visiera e i miei occhiali si appannano di continuo. L’autista mi aiuta. Forza. In casa di Ciccio sono tutti malati. Gli prendiamo la saturazione, il livello dell’ossigeno nel sangue, ed è 46. Riproviamo perché è un dato che non esiste. Il saturimetro conferma. Attacchiamo Ciccio alla bombola di ossigeno e sfioriamo gli 80, pochissimo se consideriamo che una persona normale ha una percentuale tra i 95 e i 100 . Sento tossire e mi volto a guardare sua figlia. Ha la febbre anche lei da dieci giorni. Mi chiedo chi altro dovremo venire a prendere in questa casa. Resto più di un’ora davanti al Pronto Soccorso, colando sotto la tuta di protezione accanto a Ciccio, facendogli qualunque domanda per tenerlo sveglio. Batto le mani sul vetro del portellone per chiamare il mio capo equipaggio ogni volta che la saturazione riscende sotto i 70. Ciccio avrebbe dovuto festeggiare 60 anni di matrimonio con sua moglie a novembre. L’unica cosa che posso fare è non dimenticarlo.

Per sanificare il mezzo e ricaricare le bombole di ossigeno che abbiamo quasi finito, seguiamo le indicazioni di un dipendente di Areu che vedremo comparire a qualunque ora e da qualunque angolo durante i nostri servizi. Quando mi sento stanca, ancora penso a Nicola e all’energia con cui l’ho visto muoversi nel delirio di quella giornata che sembrava non finire mai. Nel parco macchine della sede di Croce Rossa Bergamo ci sono ambulanze che vengono da tutta la provincia. Una signora ha regalato un centinaio di brioche per noi soccorritori. La gente qui ha già capito quali sono le forze in campo. Noi sentiamo il sole sulle ciglia e comunque chiamiamo chi conosciamo in zona per dirgli di restare a casa e non muoversi.

Degli altri servizi fatti ricordo solo l’attesa infinita, il mio battito cardiaco in una situazione di pericolo in una condizione che dovrebbe avere sempre un tempo diverso ed essere un passaggio veloce da casa all’ospedale. E invece. Ricordo i figli della signora che abbiamo dovuto lasciare nell’RSA perché non c’era molto da fare, la mano aperta verso di loro come a scusarmi della nostra impossibilità di fare qualcosa e il tramonto e loro che guardano la targa MI della nostra ambulanza e si scusano loro con noi, che più di così proprio non si poteva fare ma una mamma è una mamma e allora. E poi le foto del signore che abbiamo lasciato a casa, noi vestiti come degli alieni e il medico e l’infermiere senza niente. E quanto era bello il giorno del suo matrimonio. E la dignità di suo nipote che chiede come alleviare la sua dipartita. E l’accento che mi ricorda una messa degli Alpini in cui mi hanno fatto passare in mezzo a loro in divisa da cerimonia facendomi gli onori nella navata del Duomo e mi sono sentita carica di tutta la Storia con la S maiuscola sulle mie spalle, inadeguata, orgogliosa ma presente e piena. E poi sono qui.
A telefono durante i turni di unità di crisi regionale a parlare ancora con loro, i bergamaschi, e con la provincia, e con i paesini e le città di tutta la Regione anche a soccorritori che come me vengono da un altrove e hanno un altro suono. A controllare che abbiano fatto bene e non rischino niente. Io che so perché ci sono passata. E rido alle loro storie buffe, ai loro salvataggi impossibili, mi riempio di orgoglio come un cappone ascoltando la Presidente che vive in comitato per controllare tutto al meglio da quando è scoppiata la pandemia e si occupa di tutto e tutti e ammette di essere un po’ stanchina solo a telefono con noi; altri si sfogano, urlano, qualcuno piange perché ha paura. Qualcuno piange solo perché ogni tanto ci sta ed è meglio affidarsi a qualcuno che non sia così tanto vicino da pre-occuparsi. E quando finirà, cercherò le loro facce, il riconoscimento perché in tutto questo tempo non abbiamo fatto altro che sostenerci a vicenda, noi che sappiamo cos’è. Com’è. E poi sono di nuovo in ambulanza, ma qui a Milano, e porto via l’ultimo adulto da una famiglia in cui i bambini ci riprendono con un I-pad mentre andiamo via. E porto via anche l’ultimo abitante di questa casa, che sua moglie è già in ospedale da due settimane e lui aspettava che la febbre se ne andasse ma ce l’ha ancora, e allora chiude tutto, anche il gas, butta l’immondizia e chiude la porta di casa. Che forse non vedrà più, sperando di farcela o che almeno lei. E poi porto via il marito della ragazza marocchina che vive a Milano da quattro anni e non sa nemmeno dirmi ciao in italiano. E mi chiedo come farà.
E la moglie di quest’altro, invece, scoppia a piangere prima di chiudere la porta e i miei colleghi fanno fatica con la sedia su cui stanno portando suo marito, e le scale sono ripide ed io, anche qui, sono più giù, solo con la divisa e la mascherina ma almeno alzo la mano perché lei sappia che l’ho vista. E l’alza anche lei, perché siamo umane tutte e due e mi ha visto oltre tutta la roba che ho addosso. Ed entro in case piene di specchi e merletti, con vedute mozzafiato e senza possibilità di cambiare aria. E entro in pronto soccorso in cui non si riesce a camminare tanta la gente e le bombole che occupano anche lo spazio del minimo movimento. E sono accanto alla signora che continua a battere le mani sulla visiera della mia collega perché vorrebbe carezzarle il viso. E ancora con lei che mi chiede di dare almeno degli occhiali protettivi ai carabinieri e ai poliziotti che sono stati chiamati su questo servizio a rischio con noi e hanno solo le mascherine. E poi penso al mio reparto del Policlinico dove non posso tornare e dove continuano tutte le storie che ho visto iniziare, sotto le mani di persone che stimo e a cui voglio bene e per cui, questa volta, sono io a preoccuparmi.

E ho fiducia, poi di nuovo paura. E non faccio una piega.

Poi uno dei soccorritori a cui abbiamo dato il cambio a Bergamo non ce la fa. Se ne va via, come tanti altri di noi, tra cui anche Andrea che mi aveva insegnato a gestire l’emergenza e mi aveva offerto una pizza per l’accento condiviso e l’odore di casa. E allora mi fermo a un semaforo in questo silenzio assordante. E lo sento tutto arrivarmi addosso. E allora è Milano che mi dice che posso. Verde, rosso, verde. E finalmente mi fermo. E resto qui. A piangere per un po’. Ed è un pianto strano perché ha dentro di tutto. La disperazione e la tristezza per quello che non è andato e la gioia e l’orgoglio di essere riuscita ad andare oltre di me. E di essere qui. Un essere umano con tutte le sue meraviglie e tutti i suoi limiti. Ed essere qui, a piangere tutta questa roba qui, a far girare il pedale a vuoto, prima che il mio piede ci si riattacchi con forza. E possa ripartire.

 

*Alla mia Croce Rossa di Milano, alla mia Milano, a tutti quelli a cui ho mentito per non farli preoccupare, alla mia Unità di Crisi Regionale di Croce Rossa, a tutti i soccorritori che mi hanno raccontato le loro storie, a quelli che mi hanno vestita e svestita, a Bergamo, a Nicola di Areu Monti, Giambattista di San Fermo della Battaglia, Maruska di Menaggio, alla mia squadra, a Barbara su tutti, all’Ispettrice, agli Stefano e a Vili, a Erica e a tutti i suoi come stai e a Marco che mi ha coperto le orecchie nel sonno per farmi svegliare più forte di prima.