Il colore di Mordini per guardare il mondo. Il taglio di luce da una finestra. La scelta di un maglione che accompagna un riflesso. L’ombra che si forma tra le pieghe di un lenzuolo. Sono i dettagli che amo cogliere da sempre, le sfumature, i frammenti che danno il tutto, i pezzi dei miei elenchi di cose amate che mi costringeva a fare quando era il mio – mio, prima di tutti – prof. dell’Università.

Il testimone invisibile del titolo è il motore del racconto. In un lussuoso appartamento in cui è agli arresti domiciliari con l’accusa di aver ucciso la sua amante, Andrea Doria (Riccardo Scamarcio), un noto imprenditore di I-tech, incontra un’imbattibile penalista, Virginia Ferrara (interpretata dall’attrice teatrale Maria Paiato) che ha accettato di studiare il suo caso, spinta dall’avvocato di lui, come ultima sfida prima della pensione, nel tentativo di offrire a Doria un’impossibile via di fuga ad una sentenza quasi scontata di omicidio. In realtà, dietro la morte della bellissima fotografa Laura (Miriam Leone) c’è molto di più di quello che pensiamo quando i due si siedono al tavolo per ricostruire quanto accaduto. Ma il tutto si fermerebbe lì, con un assassinio e un colpevole invisibile, se non apparisse nelle parole di Ferrara, prima di scomparire nuovamente, un testimone. Di quale avvenimento? Di quale pezzo di questa vicenda intricata?

Mordini riprende una storia di Oriol Paulo (Contrattempo, la versione originale spagnola del 2016, è su Netflix, probabilmente – lo confermerò dopo aver letto il libro – da un testo omonimo di Polillo edito da Rizzoli)) e la trasporta in Trentino, tra il lago di Levico, Levico Terme, Bedollo e Frassilongo, luoghi meravigliosi (in cui viene voglia di andare) in cui Adriano e Laura sono stati soliti vivere la loro relazione clandestina (entrambi hanno dei compagni che amano ad attenderli a casa; Adriano anche una bambina) che dovrebbero essere familiari a Laura ma che, al mio occhio, sembrano respingere entrambi. Non c’è nemmeno nessun riconoscimento tra Laura e Tommaso Garri (interpretato dal solito bravissimo Fabrizio Bentivoglio), un uomo che le presta aiuto mentre è in difficoltà in quelle zone con l’auto; nessuna di quella familiarità che scatta immediatamente quando si torna in un luogo che è quasi casa. La montagna si prende la sua rivincita, si mantiene ferma come le figure che l’hanno scelta come dimora, proprio nel momento in cui la si vede nella sua completezza (l’omicidio di Laura ci sembra realizzarsi nel Glacier Hotel Grawand, il più alto albergo d’Europa, in provincia di Bolzano), seguendo quella spinta naturale che porta gli esseri alla ricerca della verità. Forse è più simile al luogo Laura; alle fredde acque del lago, al fitto bosco e alla montagna della quale sembra non vedersi la fine se non al momento del suo assassinio, appunto, alla fine del suo percorso, in una struttura quasi hitchockiana dalla quale si parte alla ricerca del colpevole in un percorso sempre più complesso e assurdo, come nell’inseguimento di una palla da bowling che travolge tutto rotolando per una discesa della quale non vediamo la fine ma della quale non possiamo fermare la corsa. Una natura che attira ma spaventa nello stesso tempo, anche se, come dice una battuta del film ‘è la paura che fa diventare il lupo più grande di quello che è’. Mordini riesce laddove un buon thriller deve riuscire, ossia tiene il colpo di scena fino alla fine, anche se, nell’intricato sviluppo della trama piccoli dettagli sembrano poco plausibili (in una storia contemporanea non dovrebbero esserci cabine telefoniche) e l’apparato scenico ai miei occhi a volte è eccessivo (mi riferisco alle mille luci dell’appartamento di Doria). Tommaso Garri afferma che ‘la gente ricca vuole restare ricca e protegge ciò che ha’ proprio mentre, non essendo ricco, cerca di fare lo stesso. La dignità diventa il valore supremo. Dopo Provincia meccanica, Acciaio, Pericle il nero, vari videoclip, film tv e miniserie televisive, Mordini sceglie un progetto che sembra essere caratterizzato da una forte impronta teatrale. Forse da qui la scelta di Maria Paiato – estremamente teatrale – come interprete.  Forse da qui la centralizzazione del racconto in una sola scena che potrebbe comprendere tutto il resto del racconto (l’appartamento in cui Doria è agli arresti domiciliari) e la cui resa pare molto costruita. Mordini sembra quasi gettarsi in un esperimento scegliendo di gestire una storia che potrebbe raccontarsi tutta in una camera; oppure sul palco di un teatro, con due sedie ed una scrivania. ‘Senza sofferenza non c’è salvezza’, afferma il personaggio di Ferrara. Chissà di quale personaggio parla. E di quale sofferenza.

Un film sicuramente da vedere per le domande che pone sul bene ed il male, sulle scelte improvvise che rivelano la nostra vera natura, sul senso di colpa e sulla spietatezza degli esseri umani; sull’onestà e il piglio, sull’ostinazione e la dignità. Soprattutto nel periodo natalizio, in cui pare che quel briciolo di tempo libero in più dato dalle feste debba essere riempito con foga il più velocemente e superficialmente possibile. Non sia mai sopraggiunga il pensiero.