Per me ogni anno il ritorno a Benevento natalizio è un tentativo di mettere un punto, di tirare le somme, di vedere chi c’è, chi ho ancora voglia di vedere, chi vorrei vedere ma so che non riuscirò a farlo e andrà bene lo stesso perché il legame è saldo e andrà bene comunque. Stasera saluterò l’anno che viene a casa di nonna, anche se i nonni non ci sono più e anche se negli ultimi anni di persone che amavo ne ho perse parecchie e sono consapevole che a volte faccio di tutto per correre più forte del pensiero e concentrarmi solo sul presente perché mi sento debole, non riesco ad affrontare l’assenza; e stare a Milano in più di un’occasione mi pare un modo di congelare tutto, in uno sciocco tentativo di recuperare i miei poteri di strega – che funzionavano benissimo quando ero bambina. Di ritornare un giorno e ritrovare tutto come l’avevo lasciato. Eppure, come in quel bellissimo e sottostimatissimo film del 2013, About time (Questione di tempo, di Richard Curtis con Domhnall Gleeson, Rachel McAdams, Bill Nighy e Lydia Wilson) anche se potessi adesso tornare indietro, non potrei farlo. Perché il mio futuro è qui. Mia nipote e i suoi tre mesi vivono. E tutto quello che abbiamo alle spalle, tutta quella gioia e quell’amore, fa parte del mio presente e dovrò insegnarle a conservarlo nel futuro. Come una formula magica tramandata da generazioni. L’amore non muore mai.

Questo sentimento confuso, di tristezza e felicità, l’ho ritrovato in un articolo che vi traduco e condivido. Perché mi ha fatta sentire a posto, non del tutto sbagliata, e chissà se qualcuno di voi ci si ritroverà, come ho fatto io.

Perché il sentimento del dolore della perdita di qualcuno o qualcosa è la parola dell’anno

di Alexander Chee

In questi ultimi anni sono diventato un pendolare, anche se credo di esserlo sempre stato in un modo più attenuato. A volte, il viaggio mi prende solo i 25 minuti della guida dal mio appartamento in Vermont alla mia classe nel New Hampshire e il tempo del ritorno. Poi, dato che mio marito lavora ancora a New York, il viaggio sono le cinque ore necessarie per raggiungerlo, via bus. E a questi viaggi aggiungo quelli del tour per il mio nuovo libro, e quelli che mi portano a insegnare scrittura nei luoghi più remoti, persino esotici e mondani – Firenze, in Italia o Portland, in Oregon, per esempio – e ovunque io vada, porto con me il mio piccolo trolley con sopra uno zainetto. Porto sempre troppe cose e le mie ginocchia ne pagano il prezzo.

In ogni caso, quello che proverò a descrivere è iniziato dopo le elezioni. Stavo semplicemente portando avanti la mia giornata e a un certo punto mi è successo di fermarmi. Mi accade per poter ascoltare le notizie via radio o per guardare i tweet dopo aver spento il motore mentre sono ancora in macchina. Mi sono semplicemente ritrovato seduto, impossibilitato a spostarmi ancora. Mi ha colpito una stanchezza così profonda che a stento ci potevo credere.

Ho iniziato a chiedermi cosa mi stesse accadendo.Per mesi mi sono chiesto il perché ma poi, una notte di quest’autunno, mi sono ricordato di quando ero stanco ma non ancora da addormentarmi del tutto alla fine di un viaggio in macchina, e fingevo di dormire in modo tale da farmi portare fuori dall’auto fin dentro casa in braccio da mio padre. MI piaceva così tanto, quel contatto dolce e silenzioso. Era mio padre che stavo aspettando, passati questi 38 anni, ancora sono il ragazzino che sperava arrivasse e mi portasse a letto.

Mi sono sorpreso di ritrovarmi ad affrontare il dolore di una vecchia perdita perché avevo ed ho così tante nuove elaborazioni del dolore ancora da dover ancora affrontare. Perdite di pochi anni fa, persoe che sento di non aver avuto il tempo di piangere. L’amica che è morta la notte delle elezioni, pensando che Hillary Clinton sarebbe stata presidente o l’amico che alla fine è morto di dipendenza – una volta lop aiutato in una notte come quella che non è riuscito a superare. O quel parente che si è suicidato, sentendo che il dio che aveva pregato per tutta la sua vita non si era fermato a parlargli. Non sono nemmeno tutti, e non sono solo loro che ancora sento il bisogno di piangere.

Ho sempre saputo che quelli che sono al potere preferirebbero far collassare il mondo piuttosto che condividere il potere o cederlo ma è ancora durissimo per me fare la conta dei morti: quelli che sono deceduti a Porto Rico, in cui i sopravvissuti ancora aspettano di ricevere aiuto; i minori migranti separati alla frontiera dai loro genitori, fatti viaggiare ad Halloween mascherati per nasconderli, fatti rappresentare in corte come più piccoli di due anni, morti senza assistenza sanitaria dopo aver dormito in gabbie, e i loro familiari uccidi dopo essere stati rimandati nelle terre da cui erano scappati. Non esageravano temendo per le loro vite. I veterani che si sono uccisi una volta a casa e gli innumerevoli che sono caduti in una guerra che è durata più di alcune delle loro vite, e quelli che sono stati mandati lì ad uccidere altri. C’è la ricerca per la cura all’AIDS, interamente stoppata dal governo in questa ultima settimana perché usava tessuto fetale. Ci sono le vittime del genocidio in Yemen, quelle del genocidio in Myanmar e quelli della Siria. E c’è un’orribile ripetività in tutto questo, come se venisse fuori dallo stesso male, che passa attraverso i governi e che intravedo quando leggo degli autoritarismi in altri paesi e qualche volta, persino a cui penso quando leggo le news qui negli Stati Uniti.

‘Sto cercando di salvare la mia capacità di rispondere’ ha detto un’amica l’altro giorno a pranzo. Stava cercando di spiegare quanto fosse riluttante a fare di più che leggere i titoli delle notizie. Mi sono chiesto se fosse successo anche a me. MI sono domandato se essere incapace di leggere le notizie era di già un’inabilità a rispondere. Ma non ho detto niente perché, per alcune persone, il solo fatto di essere vive è la loro forma di resistenza, ed è abbastanza anche se potremmo fare di più. Ma recentemente ho concluso: devo salvare la mia capacità di rispondere rispondendo.

Come si può fare, mi ha chiesto la gente, e negli ultimi anni mi sono ritrovato a dire di sentirmi come una palla da bowling nel vento. O, come un amico ha osservato dopo questa mia affermazione, come un uragano. Mi sento come una pietra lanciata in un oceano di lamentazione, di dolore per la perdita di qualcosa o qualcuno in cui sono compreso io stesso. Mi piaceva fare fotografie delle nuvole, ad esempio, ma non mi piace più, avendo notato che l’aumento delle variazioni della loro misura e del loro splendore è il risultato del’evaporazione dei ghiacci dei poli. Sono ancora sconvolto da quella mattina del 2007 in cui mi sono svegliato con 50 gradi, ed era la fine di dicembre e mi trovavo in Massachussets, e avvertivo gli occhi deboli a causa delle nuove zanzare attaccate alle pareti umide e alla porta dell’ingresso di casa mia. Loro, come me, erano sicuramente qualcosa di sbagliato.

Ho un amico che scrive molto sul pianto. A volte mi ha annoiato e anche fatto arrabbiare ma ho provato a non reagire, perché la portata della mia reazione significava che avevo un problema – che c’era qualcosa che mi spaventava. Voglio fermarmi e piangere, voglio che qualcuno mi porti in braccio per le scale, voglio del tempo che non ho e una persona che non ritornerà, e nel frattempo ci sono io, e questo Paese in cui vivo, un Paese che non vorrò mai abbandonare.

Come permettersi di piangere una perdita allora? Quando non c’è tempo, quqndo la fine del clima ci sarà tra 12 anni, e la sola cosa che gli scienziati hanno sbagliato è stato che il disastro è più vicino di quanto pensavano. Come possiamo piangere una perdita, quando tutte le nostre energie sono destinate a tenerci in piedi?  So bene che abbiamo le nostre cerimonie. La mia amica che è morta la notte delle elezioni una volta mi ha regalato un set di sali da bagno – abbastanza sale da durare anni. Me lo ha regalato nel 2011 e un paio di mesi dopo ho creduto stesse finendo. Ma non lo era. Ho avuto l’impulso di conservarlo, di non usarlo più. Essere vicino alla fine di quei sali mi ha fatto uscire una lacrima e sentire quanto la mia amica mi mancasse. Così ho pensato che le espressioni di ‘piangere un caro’, ‘elaborare il lutto’ sono inadeguate. Forse quelloi di cui io ho bisogno non è di perdermi nel dolore della perdita ma di ritrovarmici dentro, di vivere in quell’espressione. Di ammettere che si potesse piangere le persone care nella mia vita, in maniera tale da poter senire quel dolore e continuare a vivere e mantenere le persone che ho perso mentre sono ancora qui, anche buttandomi in ogni nuovo giorno.

Ho scritto queste cose la notte in cui stavo festeggiando l’ultimo romanzo di un amico che era morto l’anno prima. Questo romanco è un po’ come quei sali – non sapevo che avesse un altro libro da regalarci finché non me lo sono ritrovato nella cassetta della posta. Ho pensaro che i morti trovano sempre un modo di tornare da noi in qualche modo, anche in maniere che non potremmo mai prevedere. Forse la sola risposta di cui ho bisogno adesso è che devo solo continuare ad andare avanti, piangendo oppure ridendo, e portando quello che ho con me, lasciando che il futuro decida cosa mi arrivi o chi. Forse è tutto quello che possiamo fare. Quello che so per certo è che il dolore per le persone che non ci sono più non passerà mai perchè l’amore che ho provato per loro non finirà mai. E non potrei volere diversamente.

[L’articolo originale è qui]. 

Buon anno a tutti.