Come si può avere traccia di tutte le parole di una lingua? Come si possono raccogliere e spiegare tutte le espressioni che nel corso degli anni hanno descritto cose e sentimenti per renderle in questo modo accessibili agli altri? Come spiegare tutti i significati della parola amore, definire l’arte o un semplice bagliore? Nel 1857 la celeberrima università di Oxford inizia il tentativo di composizione di un dizionario completo della lingua inglese. Si tratta di un’impresa colossale per la quale il gruppo del professor Samuel Johnson e la sua squadra si muovono davvero molto lentamente. Nel 1879, con molto scetticismo vista la sua mancanza di titoli e il suo essere fondamentalmente un autodidatta, la gestione della composizione del dizionario finisce nelle mani di un personaggio incredibile, lo scozzese James Murray, un uomo che dichiarava di avere ‘una conoscenza intima dell’italiano, del francese, del catalano, dello spagnolo e del latino’, ‘un livello leggermente inferiore del portoghese, del valdese, del provenzale e di vari dialetti’. In più, era ‘tollerabilmente familiare con l’olandese, il tedesco e il danese’. I suoi studi dell’anglosassone e del gotico erano stati approfonditi; conosceva un po’ di celtico e, all’epoca in cui scrisse la lettera dalla quale gli sceneggiatori del film di cui stiamo parlando hanno copiato la lunga battuta di una scena, stava imparando lo slavo, essendo già a conoscenza del russo. Aveva anche ‘sufficiente conoscenza dell’ebraico, del siriano tanto da poter leggere il Vecchio testamento e la Peshitta (una delle versioni siriache della Bibbia)  e una conoscenza un po’ inferiore dell’aramaico, dell’arabo, del copto fenicio’. Già solo James Murray (interpretato da un Mel Gibson che nel corso degli anni apprezzo sempre per la scelta – o la fortuna – del legarsi a progetti visionari; l’ho  adorato in Million dollar Hotel di Wenders ma anche in commedie come What women wants di Nancy Meyers mentre non lo apprezzo tanto come regista) è un personaggio che vale questa storia; ma Il professore e il pazzo anche nel suo titolo banale (pure in originale non regge il nome del libro di Simon Winchester da cui il film è tratto The Surgeon of Crowthorne: A Tale of Murder, Madness and the Love of Words; in italiano L’assassino più colto del mondo) ha un altro protagonista, il pazzo appunto. William Chester Minor è un chirurgo di Yale, un veterano della guerra civile statunitense, che in una crisi paranoica (probabilmente dovuta alla sua precedente condizione di combattente e allo stress subito in guerra) ha ammazzato un uomo innocente ed è stato chiuso in un ospedale psichiatrico inglese, il Broadmoore della cittadina di Crowthorne appunto. Quando Murray, in difficoltà per la mole di lavoro richiesta dalla compilazione del dizionario, si appella ai lettori di lingua inglese, chiedendo loro di contribuire, semplicemente leggendo e segnando le parole degne di nota incontrate nella lettura, indicando l’anno della prima apparizione e la citazione che meglio rappresenta la parola stessa, resta stupito del valore e dalla mole del contributo di un solo uomo, W.C. Minor appunto (interpretato dal solito straordinario Sean Penn). Il professore e il pazzo è il racconto (classico dal punto di vista registico e della struttura narrativa, con una sola scena disturbante) di una grandissima impresa e di due figure leggendarie, legate soltanto dall’infinito amore nei confronti della parola. La parola è ‘la cosa’ attraverso la quale Minor sembra riuscire a riacquistare il senno, l’unico elemento che sembra ricondurlo a sé, spegnere gli incubi, concedere il perdono. Ma la parola scritta può anche mettere in crisi riportando a galla la paura di sé e il desiderio di oblio. Il professore e il pazzo è anche il racconto di una grande amicizia, del supporto familiare, dell’amore, del desiderio di vendetta, dell’orgoglio, dell’accoglienza e del perdono. Della sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di più grande di noi (nel come le guardie si approcciano al grande chirurgo, ma anche in come lo stesso Minor guarda la vedova a cui ha rovinato la vita; della pochezza del mondo erudito di fronte al vero genio ma anche dei semplici studiosi di fronte alla pagina fitta), di quanto la guerra possa distruggere un essere umano e di quanto poco si sia rifletta su questo e, soprattutto, dell’esistenza di un legame e della probabilità del riconoscersi profondamente in un essere umano totalmente opposto alla nostra persona. Qualcuno che può persino essere indicato come qualcosa da tenere lontano dalla società e da dimenticare in una cella scura. Nonostante il classicismo della regia di Farhad Safinia, io che amo la parola scritta non ho potuto non commuovermi di fronte a una storia del genere. Non riesco a smettere di pensare che possa essere moltiplicata per tutte le persone che, per i 70 anni necessari alla compilazione dell’Oxford English Dictionary, hanno contribuito a leggere e a cercare il significato condiviso di tutto ciò a cui possiamo dare nome, sfogliando pagine scritte che consentivano allora e consentono anche adesso di vivere più vite contemporaneamente, nella consapevolezza che persino riportando tutte le parole, persino quelle origliate nelle conversazioni private dei bambini, bisognerà sempre rincorrere ogni sfumatura e  sviluppo di questa cosa ingestibile, meravigliosa e viva che è la lingua scritta e parlata e con cui cerchiamo, più o meno inutilmente o egregiamente, di dare ordine al mondo in cui viviamo. Touché.