Nella mia pancia l’India è Shantaram e Tiziano Terzani, il luogo dove scappò il mio coinquilino di Torino dopo la fine di una storia d’amore, dove andò a lavorare per un po’ ‘il maledetto’ Ferretti e tornò con in regalo un telo bellissimo e colorato, è il posto in cui hanno vissuto vari altri amici ingegneri mandati da grandi e piccoli gruppi aziendali a confrontarsi con il diverso ma sempre un po’ protetti, è dove vivono alcuni capoeristi con cui ho giocato che ciondolano continuamente la testa e studiosi di politica internazionale che ho incontrato nei miei studi, dove è nata Neha e dove ci sono i colori del film Water di Deepa Mehta e le gesta di Ghandi e Madre Teresa di Calcutta a segnare la terra.

Sono passati 70 anni dalla fine dell’Impero Britannico in India. Gurinder Chadha (la regista di Sognando Beckham del 2002) ci pensa prima di decidersi di occuparsi di una storia che è anche un po’ la sua.
Nel 1947, dopo 300 anni da quando se ne erano appropriati, gli inglesi decidono di mettere fine all’Impero Britannico in India. Alcuni pensano lo abbiano fatto perché avevano fin troppi problemi in patria con i postumi della seconda guerra mondiale, altri perché i problemi tra i gruppi religiosi indiani si erano fatti ingestibili per l’Inghilterra. In ogni caso, nel 1947 a Delhi arriva l’ultimo viceré, Lord Mountbatten (un meraviglioso Hugh Boneville che abbiamo adorato anche nella serie Downton Abbey), il nipote della Regina Vittoria, per lasciare il testimone a chi sarà a capo del nuovo governo indiano. Impresa non facile nemmeno per un uomo che si dimostra molto diverso dai suoi predecessori, accompagnato da un’altrettanto differente moglie, lady Edwina (una davvero straordinaria Gillian Anderson) che  spinge anche sua figlia (Lady Pamela interpretata da Lily Travers) a ‘vedere’ le cose, ad interessarsi veramente di questo complesso paese che li ospita e che ameranno fino all’ultimo.
E nonostante tutto.
All’interno della storia politica e familiare che coinvolge i Mountbatten si sviluppa anche l’amore tra Jeet (Manish Dayal, quel fanciullo che recitava accanto a Helen Mirren in Amore, cucina e curry), indù, e la musulmana Aalia (Huma Qureshi- che nel suo Paese è famosissima) che fungono da esempio della drammaticità dei risvolti di quello che è stato il più grande esodo della storia.

La regista (che è anche un’ex giornalista della BBC) ricorda: ‘Dopo duecento anni di potere coloniale britannico in India, gli indiani si coalizzarono contro i regnanti inglesi nell’ammutinamento indiano del 1857, altrimenti detto “prima guerra d’indipendenza indiana”, a seconda del libro di storia che si legge. Gli inglesi riconquistarono il controllo degli stati, ma rimasero scioccati dalla forza dei rivoltosi e dunque fomentarono la tattica politica imperiale britannica del ‘divide et impera’ e gettarono i semi della separazione tra indù e musulmani. […] Quando la morsa degli inglesi in India iniziò ad allentarsi, il conflitto esplose in un vuoto di potere sempre crescente e gli inglesi accelerarono la loro partenza dal paese, forse perché realmente convinti che così facendo la violenza sarebbe diminuita o forse perché volevano davvero scappare a gambe levate dal pasticcio che avevano creato. O forse c’era davvero una ragione completamente diversa: il desiderio del regime di disegnare una certa mappa del mondo postbellico’. Con la Partizione dell’India, si stima che 14 milioni di individui furono sfollati e un milione circa morirono. I nonni della regista scapparono dal Pakistan, si ritrovarono e riuscirono a ricomporre la famiglia dopo moltissimo tempo in India. Durante il viaggio sua nonna perse, però, la figlia più piccola che non sopravvisse all’esodo.

Mi è chiaro il tentativo di mostrare l’altro lato della storia da quando un’amica tedesca mi definì quello che noi chiamiamo ‘La discesa dei barbari’ come ‘Il periodo delle grandi espansioni’. Chadha introduce il racconto con la citazione ‘La storia è sempre scritta dai vincitori’.

Il film è il risultato del lavoro di un’enorme produzione con un cast di prim’ordine e il coinvolgimento di un enorme numero di comparse e maestranze e ha il respiro di una grande epopea. Peccato, però, che, soprattutto le storie personali dei protagonisti indiani non vengano indagate in maniera molto approfondita, il tratteggio delle loro motivazioni e del loro passato resti superficiale e le loro figure seguano, quindi, dinamiche da cliché rischiando di banalizzare la complessità storica del racconto.
Eccelsa Gillian Anderson, al cui personaggio multisfaccettato e all’avanguardia per l’epoca, viene affidato un umorismo degno di nota (sue le battute: ‘Buckingham Palace è un bungalow a confronto del Palazzo di Delhi’ e, riferendosi a Ghandi: ‘L’Impero britannico sconfitto da un uomo in perizoma’).
I 70 anni di indipendenza dell’India avrebbero meritato, comunque, uno sforzo maggiore in fase di sceneggiatura; queste sono storie che vanno approfondite. Vi invito, in ogni caso, a vedere il film e a paragonare quest’India con quella raccontata da Abdul alla regina Vittoria nel film di Stefhen Frears (Vittoria e Adbul) in uscita a fine mese. Sono parti dello stesso calderone.