Io e la mia amica Elena, che è venuta con me all’anteprima, abbiamo definito in modo ironico Dove non ho mai abitato di Paolo Franchi ‘il film delle case brutte’. Lo spazio in cui si muove Francesca (Emmanuelle Devos) è costituito infatti da case di lusso antiche e moderne, con i soffitti molto alti e arazzi, pareti ricoperte di rame, legno, colonne di marmo, porte enormi, grandiose librerie in legno pregiato, pavimenti su cui i tacchi fanno rumore, stanze grandissime solo di passaggio e movimenti che consentono di pensare, di annunciarsi, di preparare battute anche molto cattive, come quelle che Manfredi (interpretato da Giulio Broghi) rivolge spesso alla figlia, da vent’anni a Parigi, tornata a Torino, la città dov’è nata e da cui è fuggita dopo la morte di sua madre, per i festeggiamenti del genitore.
Alla festa partecipa anche colui che Manfredi avrebbe voluto come figlio, Massimo (interpretato dal solito bravissimo Fabrizio Gifuni), un uomo che si muove perfettamente a suo agio negli stessi ambienti del vecchio e illustre architetto; ma anche di Francesca che, ovviamente, ha studiato architettura per un anno prima di buttare all’aria tutto e scappare lontano dalle aspettative paterne, facendo scelte che lo hanno puntualmente deluso e di cui l’uomo ha saputo sempre lamentarsi. Ma nonostante i tentativi di Francesca di sfuggirgli, Manfredi, più o meno inconsapevolmente, riesce a manipolare i destini dei due protagonisti, coinvolgendo la figlia – dopo un malessere che l’ha colpito e l’ha costretta a rimanergli accanto nel capoluogo torinese – in un progetto architettonico per la casa di una coppia di innamorati sul quale sta lavorando Massimo.
Bastava solo una spinta perché i due ‘prescelti’ si riconoscessero e compensassero a vicenda.
Lo stimolo della passione della coppia committente (Giulia e Paolo, interpretati rispettivamente da Giulia Michelini e Fausto Cabra) e la loro voglia di progettare un futuro insieme, porterà Massimo e Francesca a riscoprire passioni sopite e a riconoscere la difficoltà del loro costruire per sé qualcosa che vada oltre il giorno o che sia davvero corrispondente a ciò che desiderano per sé, a pianificare qualcosa che li costringa ad aprire scatoloni o a mettersi in gioco davvero, a uscire dall’immobilismo che li nasconde e protegge.
Nonostante il loro essere architetti, i due professionisti non hanno mai davvero abitato in nessun luogo.
Hanno sempre preferito essere solo di passaggio, divisi tra identità che non sembrano corrispondere.
Ci sarà il tempo per una lettera d’amore che, purtroppo, non basterà ad uscire da un ritmo troppo italiano – ma non fino in fondo come ne La spettatrice, l’opera prima di Paolo Franchi, un film straordinario dove, invece, l’attesa e il silenzio erano talmente tanto densi da divenire la misura stessa della protagonista (una giovanissima Bobulova che osservava la vita che avrebbe voluto).
Mi permetto di criticare negativamente anche la scelta dei costumi e del parrucco: i quattro della foto di copertina sembrano impagliati in abiti che vorrebbero farli risultare appartenenti all’alta borghesia ma li rendono solo cliché dei personaggi profondi che sarebbero potuti essere; mi riferisco soprattutto a Michelin e Broghi, conciati come solo una ricerca banalotta su google immagini avrebbe potuto consentire (Gifuni è un caso a parte perché riesce a indossare qualunque cosa sentendosi perfettamente a suo agio e non risultando ridicolo ma non tutti gli attori hanno questa capacità e anche Devos, che è bravissima, si destreggia male nelle gonne fascianti che le hanno incollato addosso). Il cinema è un’arte completa, somma del contributo di tante maestranze che sostengono lo stesso sogno e lo rendono coerente con se stesso. Le sbavature in presenza di una sceneggiatura trascinante e/o una recitazione straordinaria si perdonano o non si notano; emergono spesso solo quando manca qualcosa.
Nel suo indagare la capacità autodistruttiva dell’essere umano, Franchi si riavvicina alla potenza del suo primo passo (il film successivo a La spettatrice, Nessuna qualità degli eroi del 2007, mi ha addirittura infastidito) ma nonostante una sceneggiatura non banale (d’altronde dei suoi film tutto si può dire tranne l’essere scontati) non riesce, comunque, a non stancare.
Io, personalmente, dal cinema italiano mi aspetto di più. Perché ne siamo capaci.