La definizione di commedia non mi è sempre stata chiarissima, soprattutto nella sua declinazione cinematografica. Le commedie al cinema sono quei titoli che puntano sull’umorismo per intrattenere e trasmettere dei contenuti, spesso critici, nei confronti di alcuni aspetti della società. Solitamente hanno un lieto fine, ma non sempre.
Alcuni caratteri dei personaggi che vi si muovono sono molto marcati, quasi stereotipati, da ‘maschera’ – della commedia, appunto –  ed è quando trascendono, vanno oltre, commuovono, nella loro limitatezza, nella loro umanità parziale, che riescono a raggiungere quella cosa di cui è fatta la verità, che ti fa dire ‘bingo’ se sei un regista, dire ‘ben fatto’ se sei spettatore e ‘lo voglio fare’ se sei un attore che sta leggendo quel copione.

In una commedia ci sono una finta leggerezza e un ‘salto’, uno ‘stacco’, che possono consentire a un attore di ‘giocare’ di più con l’essere umano e le sue sfaccettature; e possono consentire a uno spettatore di pensare più a lungo ai sistemi – assurdi? – che regolano il mondo e alzare le mani e arrendersi di fronte ad alcune rappresentazioni – crudeli, meravigliose e inattese – della vita.

Ma le reazioni di uno spettatore e l’intensità con la quale un autore e una storia lo colpiscono, dipende, ovviamente, dal suo vissuto e dalla sua sensibilità. E il meccanismo di una commedia è un po’ più complesso rispetto ad altri generi perché una commedia ha livelli di lettura che richiedono spazi emozionali diversi.

E sono sempre le commedie a colpire me più duramente.

Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin) ha, in effetti, degli elementi davvero molto divertenti. Ma era tempo che non stavo così male per un racconto.

La storia si rivela immediatamente, senza alcun preambolo: siamo nel 1923 e Inisherin è una piccola isola con pochi abitanti separata quanto basta per vedere quasi i corpi cadere dal resto dell’Irlanda, nella quale si sta combattendo una guerra civile.
Come ogni giorno, alle due del pomeriggio, Pàdraic (un grandioso – e premiato con il Golden Globe e la Coppa Volpi – Colin Farrell) va a chiamare il suo amico Colm Sonny Larry (uno dei più grandi attori viventi, Brendan Gleeson) per andare insieme al pub. Ma Colm non risponde alla porta, nonostante i continui tentativi di Pàdraic, spiazzato da questo inspiegabile comportamento, e, di fronte alle richieste successive di chiarimenti di Pàdraic, Colm afferma di aver preso consapevolezza del suo bisogno di non sprecare più del tempo con un individuo sciocco come lui. E di non voler più sprecare tempo in generale, vista la sua volontà di comporre un’opera per violino, il cui titolo sarà The Banshees of Inisherin.
Ma l’unica cosa che taglia dalla sua vita è solo il tempo speso con quello che era il suo migliore amico. Pàdraic, ingenuo e in un primo momento incapace di fare del male a una mosca, non riesce proprio a concepire un comportamento del genere, di fronte al quale tutta la piccola comunità, composta da pochissimi individui (sua sorella Siobhàn – meravigliosa, tenera e costretta all’arresa e alla salvaguardia del sé – Kerry Condon – un poliziotto violento e suo figlio, il pazzo del paese – quello a cui io avrei dato tutti i premi del mondo, in un’interpretazione altissima di un personaggio complessissimo, Barry Keoghan, da cui mi aspetto altre meraviglie – il prete, la commerciante pettegola che ritira anche la posta, la ‘strega’, l’oste e gli avventori del pub) è rimasta, in un certo modo, scossa nella sua totalità. E di fronte alle insistenze di Pàdraic, che sembrano dovute a un misto di incapacità di affrontare i cambiamenti, stupidità, egoismo, reale incomprensione dei motivi che portano Colm a comportarsi in un determinato modo, senso di ingiustizia, Colm lo pone davanti a un dilemma e a un atto dai toni shakespeariani (che non vi sto a rivelare) che colpisce lo spettatore violentissimamente e che stoppa la risata per la mimica marcata degli attori, il loro modo di parlare, le battute, il nascondersi dietro i muretti per non incontrare l’anziana, il rapporto con gli animali.

Chi è il vero stupido in tutta questa storia? Lo sono tutti? Lo è solo qualcuno? Quali sono le caratteristiche di una persona, di un amico, di qualcuno con cui abbiamo voglia di passare del tempo, che pesano di più sulla bilancia? Qual è per noi la libbra di carne del Mercante di Venezia? Da che parte inizieremmo a tagliare? Quale parte di noi, quale degli altri? E poi, mi è venuto anche da chiedermi se le comunità non guardino altrove, per migliorarsi, per confrontarsi, per darsi altre possibilità, non per forza di fuga, per colpa della guerra, come se il pericolo al confine ci costringa a sentire il fiato sul collo e a sbranarci come piranha nello stesso acquario senza cibo.

Un film bellissimo e durissimo, che ci fa restare dubbiosi rispetto al nostro incaponirci in azioni e comportamenti autodistruttivi pur di vederci vincitori e di avere ragione. O che ci mostra il prezzo della presa di consapevolezza dei bisogni personali che andrebbero posti al di sopra di tutto. Ma, a mio parere, in particolare, un film che ti fa guardare il più fragile (chiunque esso sia per noi, perché anche la percezione di fragilità cambia a seconda di chi guarda) in maniera diversa. Perché mi è venuto da chiedermi se il più scemo di tutti non sia l’unico capace di capire davvero quanto sia pericolosa la nostra follia e l’unico capace di un amore che sottostimiamo, ma che può portarlo a fondo.

Una mazzata. Ma da Martin McDonagh, regista di In Bruges – La coscienza dell’assassino e, soprattutto, di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, non potevamo aspettarci gesti e orizzonti meno estremi, assurdi, disperati e meravigliosi.

 

 

(Recuperate il video della consegna del Globe come Migliore Attore Protagonista a Colin Farrell, in cui ringrazia McDonagh di avergli cambiato la vita e dichiara il suo affetto totale nei confronti di Gleeson, dichiarandosi un privilegiato nell’aver potersi svegliarsi per un bel po’ di mattine sapendo di stare condividendo delle giornate di lavoro con un talento del genere. Sono cose che non si sentono spesso in un ambiente così competitivo).