La terra. Ti resta in bocca, ti fodera la gola, la testa, la maschera, il petto. Ti risuona dentro come una cassa armonica. L’accento del Piceno è fortissimo, come il mio. Sa della risata e della tosse dei nostri nonni, di appartenenza e nostalgia di casa, come una cicatrice di cui vai fierissimo perché ha dimostrato la tua tenacia o il tuo coraggio. L’hanno sfiorata il soffio e le labbra di chi ci teneva d’occhio da bambini. Ci difende perché ci ricorda chi siamo. Dei ragazzi sul treno. Potevo essere io. Potevi essere tu.
Ho della sabbia nella tasca di una gonna che può raccogliere bacche, danze e fatiche e il sapore del vino sulla punta della lingua, che posso ricercare come un segreto. Mi sento come se avessi carezzato tutto il litorale con le dita, come da piccola: ogni volta, la mano sul vetro del finestrino della Uno di mamma sembrava cercare di registrare quelle diapositive del paesaggio troppo veloci. I ragazzi del Piceno non si somigliano se non nella loro lingua larga, nelle ‘sq’ marcate, nel volume alto. I loro capelli seguono i capricci del tempo; legati, conservano una sorta di aureola che non si arrende a ciò che li raccoglie. Le sopracciglia sono vere, come quelle dei personaggi dei film di Pasolini. Restituiscono la carezza sulle palpebre consentita solo a qualcuno di cui ci si fida. Sono le facce del Piceno. Le ho riviste nei loro vecchi affacciati alle finestre di pietra di Ascoli, su passi bagnati di pensieri notturni, nelle piazze e anfiteatri che si aprono a sorpresa nel vagabondaggio nei vicoli. Hanno riso, restituendomi ossigeno, indicandomi una forma che pare un fallo su una Chiesa. Mi hanno accompagnata verso l’orizzonte sulla lunga spiaggia di San Benedetto. Mi hanno fatta togliere le scarpe, riportato a un tempo in cui le reti si tiravano nudi. Per non farsi male oltre lo sforzo, per non essere risucchiati dalla stoffa nella cresta dell’onda. Non ti ho cercato. Ma ti ho sentito. Era tua la voce immersa nelle viti e nelle spighe. Avrei potuto raccoglierla io, prima che cadesse, al ritmo del lavoro nei campi. L’avrei sospinta insieme alla mia e qualcun altro l’avrebbe presa, la parte mia e la parte sua, cinquanta e cinquanta, per portarla attraverso il mare della terra delle Marche fino alla fine di esse, all’altro mondo, alle porte del Regno. La terra trema e resiste. Dalla terrazza del Regno, dalla cima del forte, sento il profumo del mare. Non ti cerco. Ma ti sento. Poi volto un angolo. E tu sei lì. Mi sembra troppo scritto e il tuo nome mi rimane in gola. Resta la scia del colore dei tuoi vestiti da giullare e Dio. Tornerò nella terra delle mani salde come le tue, capaci di costruire yurte e violini, capaci di resistere allo scoppio del dolore, di andare oltre l’urlo, di prendermi e di portarmi all’aria. Di restituirmi l’acqua per respirare.
Tornerò per riconoscerci, amato Piceno. Per portare con te, per l’ennesima volta, la voce oltre le difficoltà.