Final portrait per me sta a ‘Ultimo atto’. Queste parole a mio parere sembrano più vicine alla traduzione letterale del titolo originale del film, ‘Ritratto finale’ appunto. L’arte di essere amici è un’aggiunta che credo banalizzi il rapporto raccontato in questa storia e la modalità straordinaria con cui il suo protagonista guardava al mondo.
Alberto Giacometti, pittore e scultore svizzero, è stato considerato dalla critica come uno degli artisti che meglio hanno saputo interpretare l’esistenza dell’uomo del Novecento, in opere visionarie e solitarie che esprimono tutta la paura della morte cresciuta in seno ad una generazione testimone della guerra e delle dittature fasciste che, comunque, tenta di sperimentare nuovi mondi e cerca, in maniera continuativa, di divenire migliore. Nel 1964 Giacometti è a Parigi con suo fratello Diego, anch’egli artista, e sua moglie Annette. Si muovono tutti e tre in un vicolo ‘privato’, sporco di gesso  e di materia, cupo come i colori prediletti dall’artista; tre sono le stanze, quella da letto vissuta quasi esclusivamente da Annette (Sylvie Testud), lo studio con l’anti-studio (una panchina sotto i rami di un albero in cima ad una scala) di Diego (Tony Shalhoub) al piano superiore e lo studio, grande e in cui è possibile custodire cose senza ritrovarle mai, di Alberto Giacometti. Stanley Tucci (oltre ad essere un attore straordinario è al suo quinto film come regista) mette nei panni di Giacometti Geoffrey Rush e racconta dell’incontro tra questi e James Lord, critico d’arte e biografo americano (Armie Hammer, in questo periodo nelle sale anche con il film Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino per il quale ha ottenuto una nomination agli Oscar come miglior attore non protagonista) in visita in quel periodo nella capitale francese. James Lord incontra Giacometti che gli chiede di posare per lui prima del rientro negli Stati Uniti. Ci vorranno solo tre, quattro ore, un pomeriggio, gli dice. Alle prime tre ore, ne seguono altre e poi altre. E poi altre ancora. Giacometti lavora, borbotta, sente il bisogno di fare una pausa. Lo spazio e il tempo vengono rotti dalle visite e dalle assenze della prostituta Caroline (Clémence Poésy, colorata, rumorosa in un modo diverso – più sfacciato – rispetto ad Annette che sembra scuotere l’artista dal di dentro) finché Lord teme addirittura di non riuscire più a tornare a casa.
Le camere sembrano tutte decadenti ma sono solide, hanno spessore come la presa con cui Giacometti modella le sue sculture, come il tratto spesso con cui disegna sulla tavola mettendo tutto in discussione, continuamente, finché qualcun altro non deciderà che è finita. Sono spazi che sembrano poveri o kitch (come il bordello) ma sono belli perché sono ambienti in cui basta un poco di luce (o l’arrivo di una donna innamorata) per cambiare tutto. E anche un albero che era lì da sempre sembra diverso. Peccato che Tucci a volte faccia uscire i personaggi da quelle stanze e da quei vicoli e cerchi Parigi. Ci concede uno sguardo deludente della città – l’ultimo piano dei palazzi e il cielo e una strada verde che non porta da nessuna parte – che non aggiunge nulla al racconto e alla descrizione dei personaggi.
Lord narra la storia. Ogni giorno annota e fotografa i progressi del suo ritratto, commenta e descrive il lavoro dell’artista. Ne scrive un libro, Un ritratto di Giacometti (edito in Italia da Nottetempo), che è la base di questo film. Che è l’osservazione della ricerca di un’artista incredibile, che non credeva fosse possibile ‘finire’. Che cercava sempre qualcosa di più rispetto allo straordinario che sapeva fare.

Mi è venuta voglia di leggerlo.