Discutevo con alcuni amici del fatto che il cinema non è solo trama ma anche – e soprattutto, scusatemi se lo sottolineo – immagine. La discussione era nata dalla visione, in sequenze, di due anteprime, una pellicola il giorno prima dell’altra, Made in Italy di Ligabue e Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, due film che rappresentano un modo diverso di fare cinema e un modo diverso di fare cinema in Italia. Come potete facilmente immaginare, di fronte a un prodotto – di cui poi scriverò – che ha ottenuto quattro candidature agli Oscar 2018 – come Chiamami il tuo nome, il film con la regia di Ligabue ne esce sostanzialmente distrutto perché proprio alcune delle differenze tra i due prodotti sono gli elementi che mi fanno giudicare un cattivo film da un buon prodotto. Prima di tutto – tranne alcuni casi come il cinema di derivazione letteraria o alcuna della cinematografia di Woody Allen che ha una matrice quasi psicoanalitica ed è caratterizzato dall’esplicitazione del pensiero (martellante) dei suoi protagonisti – io detesto la voce fuori campo.
Mi sembra, solitamente, aggiuntiva, ridondante rispetto a ciò che l’immagine in movimento racconta o dovrebbe raccontare. Ciò che vedi, che il regista ti pone davanti, dovrebbe restituirti l’intenzione o il sentimento del racconto, anche di ciò che non è stato detto a parole o che contraddice quanto è stato detto a parole (e da qui il mio amore infinito per prodotti come 45 anni di Andrew Haigh o di Manchester by the sea di Kenneth Lonergan in cui i dialoghi sembrano mentire o andare in una direzione diversa rispetto alle emozioni che la parola non riesce a contenere o come I, Tonya di Craig Gillespie, in cui il racconto è sostenuto da diverse voci narranti degli intervistati ma in cui la distanza tra i personaggi viene resa dal movimento di macchina e di cui è esemplare una sequenza in cui il regista segue uno di loro in ogni stanza della casa dove è rimasto solo, fino ad uscirne, andare in strada e proseguire il suo percorso allontanandosi sempre più spazialmente da lui). Un altro elemento che mi disturba sono le sequenze gratuite.
Made in Italy si apre con il personaggio di Riko che si muove su un palco durante i titoli di testa come fosse un performer (un cantante, un attore, un ballerino) abbigliato come il regista/cantante di Correggio è solito fare (camicie western e stivali che di ‘Made in Italy’, tra l’altro, poco hanno a che fare). Riko (interpretato da Stefano Accorsi che comunque ‘il suo’ se lo porta sempre a casa, soprattutto quando le parole in bocca hanno il suono della sua terra) lavora, invece, in una ditta di produzione di mortadella. Nel mio caso, visti i titoli di testa, ho passato buona parte del film dicendomi: ‘Ora canta. Ora il suo amico lo va a prendere perché suonano insieme. Ora si arrabbia con suo figlio perché quei dischi gli servono per una serata’. Invece no: Riko è semplicemente l’addetto all’insaccamento della carne in una fabbrica in cui lavora anche uno dei suoi migliori amici, Max (Walter Leonardi), è sposato con una bella ragazza, Sara (Kasia Smutniak che mi dà l’impressione di aver bisogno di duecento chili di cipolle sotto gli occhi ogni volta in cui il copione prevede che debba piangere – come se il pianto fosse una cosa legata solo alla lacrimazione e il resto del corpo potesse starsene lì, tranquillo, a non fare niente) con cui ha dei palesi problemi di comunicazione e un figlio diciottenne che dovrebbe incarnare le nuove generazioni che possono permettere un salto di qualità a tutta la loro stirpe e un gruppo di amici molto affiatato con cui gioca a carte e condivide l’intera vita. La domanda che mi pongo allora è: perché quei titoli di testa? Per sottolineare che il regista è il cantante Luciano Ligabue che indossa camicie western e stivali e può permettersi di muoversi così su un palco? Perché allora non c’era lui, Ligabue, su quel palco al posto di Accorsi? Avrebbe avuto più senso. Si tratta del sogno del protagonista che magari in un’altra vita avrebbe voluto fare il cantante o un pezzo di sotto-trama che è stato tagliato nel finale? Poco chiaro. Ed io mi irrito.
L’Italia di Ligabue è ridotta a un video musicale e a un viaggio di nozze in cui si rimedia a quasi vent’anni di errori. È un’Italia operaia in cui vige la ‘legge del furiere’, ossia la regola per la quale chi non sbraita finisce sempre di guardia mentre chi rompe viene mandato a fare le attività più leggere, è superficialmente multietnica, aperta all’omosessualità, al perdono dei tradimenti e del vizio e alla ricerca di buoni sentimenti. È un’Italia criticata alla buona, in cui gli anziani se sopravvivono non stanno molto bene, l’unico appiglio sono gli amici, l’arrivo di un figlio per una donna risolve tutto e il ritorno al Bel Paese è possibile anche per chi non ha competenze ed è costretto ad adattarsi e a fare il lavapiatti a quarant’anni, come se i soldi mandati dall’estero non finissero mai e consentissero una sistemazione definitiva. La critica sembra aver accolto benissimo questo film perché pare raccontare un’Italia provinciale che non ritroviamo al cinema. Sinceramente, mi sembra che chi ha preso posizioni del genere non vada al cinema da tantissimo tempo. La provincia, non banale e colorata come quella di Ligabue, è sempre stata presente nel nostro cinema.
Il cinema di Ligabue, con Radiofreccia del 1998 e Da zero a dieci del 2002 – nonostante anche in quelle storie sembrava che la crescita di un individuo potesse passare solo attraverso il lutto – aveva almeno il pregio di raccontarci delle storie piccole che riuscivano a dirci qualcosa dell’Italia senza la pretesa di volerlo fare. La presunzione di adesso, perlopiù con una storia prevedibile e poco distante dall’intenzione del passato – è quasi offensiva. Peccato, perché l’idea del racconto che segue le tracce di un album che ne è la colonna sonora (Made in Italy del cantante Ligabue, appunto) era bellissima. Chissà se Ligabue ha mai visto il film Made in Italy del 1965 di Nanni Loy. Dovrebbero vederlo anche quelli che hanno gridato al capolavoro in questi giorni. Per me, non basta una citazione di Cesare Pavese a risolvere tutto.
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
Vivendo a mille chilometri dalla terra in cui sono nata per poter essere formata e lavorare, sono ancora più arrabbiata.