Richter accompagna i miei passi di corsa, mescolato a canzoni più o meno truzze e a Bach. Quando lo shuffle me lo ripresenta, il ritmo della corsa diventa quasi disperato ogni volta.
Quando è partita On the Nature of Daylight all’inizio di Arrival mi sono chiesta perché. Lo stesso brano è stato usato da Scorsese e Robbie Robertson  in Shutter Island. Chissà se il regista Villeneuve e il compositore Jóhann Jóhannsson si sono fatti qualche problema. Il mio cuore sa respirare seguendo On the Nature of Daylight e aspettava con ansia la partenza del violino. Mi sono poi chiesta se i due hanno usato un pezzo già noto per questo motivo o soltanto per quell’amore per la musica che se ne frega di chi lo ha già usato e perché.

Arrival, l’arrivo. L’arrivo che tanto cerchi di raggiungere durante una competizione (il nastro da spezzare, le boe da attraversare, la linea da superare), l’arrivo di qualcuno che attendi (in una sala d’aspetto, nel corridoio davanti a una sala parto, su una banchina) o di qualcosa che non ha a che fare con te. O che pensi non abbia a che fare con te.

Quello che si pensava l’inizio del racconto è la fine. O il contrario. Louise (una strepitosa Amy Adams) ha una bambina che nasce, cresce, ama, odia, dimentica e muore tra le braccia di sua madre. Lei va avanti. Insegna all’università, si occupa dei giorni. Lei che è quella che del linguaggio tutto sa. Ma un giorno c’è un arrivo particolare, l’arrivo di qualcuno inatteso e incompreso. Louise e Ian (Jeremy Renner che non brilla ma non importa perché non è lui il centro) sono alcuni degli esperti chiamati dal governo americano per comprendere cosa sta accadendo.

Questo film parla della ricerca della comunicazione, di un linguaggio che molto spesso non è un codice condiviso (come avrebbe preferito zio Franco, fisico-chimico di 84 anni che è venuto al cinema con me) ma un’esperienza che si può trovare solo se si ha il coraggio di togliersi un casco o oltrepassare una soglia, conoscere un dolore e condividerlo.
Questo film parla dell’altro e di quello che ci si chiede di fronte al diverso. Chissà se poi davvero gli alieni del film hanno una forma o se quella che vediamo è la forma che Lousie gli ha dato.
Mi è venuto in mente che Gabriele Vacis (regista teatrale) contestava a tutte le altre rappresentazioni di Novecento (pièce teatrale scritta da Baricco per la messa in scena del regista di Settimo Torinese) l’utilizzo della musica. Come si fa a riprodurre la musica suonata da Danny Boodman T.D. Lemon Novecento? Come fai a far sentire una musica che non si è mai sentita? Non si può fare, no?
Dandole una forma la si banalizza, forse. La si rende concreta e più piccola di quella che sarebbe.
Nella mia visione del film, l’altro non può avere una forma; non ha quella forma lì. Per me quelli sono gli alieni di Louise, solo i suoi, con la forma che la sua bambina gli ha dato, un giorno, non importa se del prima o del dopo.
Non importa più il passato, il presente e il futuro. Non importa il tempo.
Mi restano un sacco di domande nella pancia. Alcune non hanno senso, ma chi se ne frega.
Il cinema ha a che fare col sogno. E i sogni spesso non hanno senso. Seguo la provocazione di Villeneuve e perdo il tempo.

Chissà che forma avrebbe il mio alieno. Chissà cosa vorrebbe che mettessi in gioco. Chissà se sceglierei di fare tutto daccapo o mai più.

(E tu?)