Split è stato il primo film che ho visto quando l’idea di questo blog stava diventando un po’ più concreta. Mi sembrava giusto iniziare con un racconto sulle personalità, visto che qui dentro ne saranno coinvolte tante, tutte molto diverse tra loro.
Ho tardato a scrivere ma Split è ancora nelle sale. Purtroppo, è un esempio di quello che non si dovrebbe fare nel promuovere un film, ossia tentare di attrarre lo spettatore spoilerando (ci sarà un modo di accennare a una trama senza raccontarne lo snodo fondamentale, o no?) Si potrebbe provare, ad esempio, a fargli percepire l’emozione contenuta nella storia; in questo caso, invece, perfino la locandina del film ti dice come va a finire.

Ho sempre amato il modo di Shyamalan, il regista, di vedere le cose, di capovolgerle e dare loro un senso inatteso. Anche in Lady in the water – un flop al botteghino – è stata questa sua capacità come di rendere giustizia al diverso, di sopraelevarlo a potenza, a supereroico, a tenermi incollata allo schermo. Ma da allora (Lady in the water è del 2006) era tanto che un film di Shyamalan non mi entusiasmava in questo modo.

Anche qui, sotto la superficie di un racconto dell’orrore quasi classico (un pazzo furioso rapisce tre ragazze e non si sa cosa farà loro) ci sono mille elementi che affiorano, tematiche attualissime, domande che dovremmo porci di continuo. Ritorna il diverso, come viene accolto, come viene ciecamente giustificato, come quello che non ci riguarda in prima persona non venga indagato ma, al contrario, venga giudicato solo dalla superficie. Casey (Anya Taylor-Joy che non eccelle ma fa quello che deve fare) una delle tre ragazze rapite, sta in disparte, a volte reagisce in modo aggressivo, è considerata ‘strana’ (termine che dovremmo imparare ad usare di meno dato che presuppone sempre la domanda ‘perché?’); le sue compagne di classe bellissime e dalla vita perfetta – persino coraggiose e intelligenti – non si pongono domande. Credono, come facciamo spesso anche noi, che basti solo un invito a fare da buona azione, che basti solo fingere di accogliere (‘ma io l’ho invitata; è lei che non parla con nessuno’) a farci sentire dei bravi esseri umani e a farci dormire la notte.

E poi c’è lui.
Seguo James McAvoy da quando recitò accanto a Christina Ricci in un film chiamato Penelope con la regia di Mark Palansky, un misto tra la favola de La Bella e la Bestia e La Bisbetica Domata di Shakespeare. Da allora non mi ha mai delusa, nemmeno nei film più commerciali in cui ha recitato. È lui Split, lo ‘spezzato’. Continuamente in questo film McAvoy cambia pelle. Pochi gli accessori – un lupetto, un impermeabile giallo, un paio di occhiali – il mutamento è tutto farina del suo sacco – ampiezza dello sguardo, lunghezza del collo, altezza della spina dorsale, quantità di saliva. Tutto lavoro d’attore; quello grezzo, che affatica, e che solo i grandi ricordano come si fa.

Kevin (McAvoy, appunto) si fa seguire dalla dottoressa Fletcher (Betty Lynn Buckley, la prima Grizabella del musical Cats, anche nel cast de La famiglia Bradford, giusto per darvi un’idea di dove avete già visto la sua faccia), una psichiatra non giovanissima che gli ha insegnato a gestire le sue ventitrè personalità, generate da un trauma infantile, e che lotta nella comunità scientifica perché, dopo aver notato in uno stesso paziente mutamenti fisici importanti tra una personalità e un’altra (come quelli legati alla presenza o assenza di una malattia), si è posta questa domanda: e se le persone dissociate, che tutti considerano inferiori fossero in realtà una mutazione che le porta a essere superiori rispetto al genere umano? Una provocazione che porta il diverso a essere supereroe.

Cosa faranno i diversi quando si renderanno conto di essere più forti? Si vendicheranno di noi che non abbiamo provato l’abuso e non lo abbiamo riconosciuto negli altri? Cosa faremo noi che non abbiamo provato il dolore necessario alla purezza?

Iniziamo a guardarci intorno e a sperare di avere altri supereroi, anch’essi diversi, dalla nostra parte.