Arlecchino servitore di due padroni fu uno dei quattro spettacoli che Giorgio Strelher pensò per il primo anno del Piccolo Teatro di Milano. 70 anni fa.
Ho 35 anni e l’ho visto quattro volte, tre a Milano (due negli anni dell’università e un’altra poche settimane fa) e una a Benevento, nel ‘mio’ Teatro Comunale, lì dove sono nata e cresciuta e ho imparato ad amare il teatro per una serie di fortunati e sfortunati eventi in giovanissima età.

Per me Arlecchino è sempre stato Ferruccio Soleri, l’attore fiorentino che subentrò al primo Arlecchino diretto da Strelher, Marcello Moretti, nel 1963. A novembre Soleri compirà 88 anni. Oggi lo affianca nello stesso ruolo Enrico Bonavera, che di anni ne ha 62. Due ragazzini.
Soleri è cresciuto con Arlecchino, Arlecchino è cresciuto con Soleri.
Non so chi abbia preso da chi. Sono meno acrobatici di un tempo, ma hanno conquistato tante sfumature che agli inizi non avrebbero avuto, l’aroma del vino fatto riposare, la ricchezza del ‘tempo dentro’ (come quello dell’incisione delle variazioni Goldberg di Bach fatte da Glenn Gould a 55 anni – ma se lo spartito è lo stesso, come diamine fa ad essere così diversa da quella fatta a 25 anni???).
L’Arlecchino servitore dei due padroni è una storia di sdoppiamento e travestimento. Pantalone sta per festeggiare le nozze della figlia Clarice con Silvio, il figlio del dottor Lombardi. I due si sposano per amore, grazie all’incidente della morte del precedente promesso sposo della ragazza, Federico Rasponi, un ricco torinese ucciso in duello da un pretendente di sua sorella Beatrice. Proprio in quel mentre, si presenta da Pantalone un individuo che si fa annunciare come Federico Rasponi, sconvolgendo tutti i piani delle due famiglie coinvolte dal matrimonio. Nei panni di Federico, in realtà, c’è sua sorella Beatrice, venuta a Venezia per riscuotere del danaro da Pantalone per poter così aiutare l’amante in fuga, Florindo Aretusi. Con sé ha portato il suo servitore Arlecchino che, trovandosi a servire Federico/Beatrice si imbatte in un uomo che ha bisogno di un aiutante durante il soggiorno nella Serenissima. Per poter soddisfare maggiormente la sua fame (quella vera, di fagioli e salumi) Arlecchino pensa di offrirsi al gentiluomo anche se ha già un impiego. Non sa, però, che quel tale è proprio quel Florindo Aretusi che Beatrice (suo altro padrone nei panni di Federico) ama.
Complicato, no? Non vi ricorda tanti tv movie dai quali non riuscite a staccare le vostre madri (e ammettetelo, non solo loro) nei pomeriggi estivi? Non trovate altre caratteristiche che soddisfano, invece, un pubblico maschile?
Lo spettacolo è ricco di colpi di scena, numeri comici da far sbellicare. Tradizione. È Goldoni. Ma la stessa storia, letta con un tono diversa è quella di un servo mette due fazioni l’una contro l’altra. Stesso canovaccio in Kurosawa (La sfida del samurai) e Sergio Leone (Per un pugno di dollari).
Nulla di nuovo sotto il sole quindi. Ancora copiamo dai grandi maestri.

La regia di Strehler è magica come l’accensione delle candele ad ogni atto. Rispetta la classicità del testo goldoniano, strizzando l’occhio a ogni bambino e ogni adulto che in questi 70 anni e ha creduto in Arlecchino e ha parteggiato per lui, anche se, oggi come allora, Arlecchino ha preso in giro tutti e fatto un sacco di guai.

Ogni volta per me questo spettacolo è stato una prova per vedere se sono cresciuta, se ho perso qualche pezzo, se sono ancora io. Beh, la risposta è che rido ancora come quando avevo quattordici anni e mi si doveva chiedere di cercare di essere un po’ meno rumorosa e resto ancora con gli occhi sbarrati per la ‘maraviglia’, come diceva Herman Hesse. Sono cresciuta, ho perso dei pezzi e ne ho trovati di nuovi e sono ancora io. Quelle tre ore passano sempre tanto veloci e quella che vedo in scena è sempre magia.