Milan – Torino, Stadio San Siro. La partita di calcio è quasi alla fine. In un freddo tardo pomeriggio di quest’autunno, il pubblico, finalmente dagli spalti, segue i movimenti dei giocatori (uomini che da casa sembrano giganti ma che da qui – eccezioni a parte – sembrano sempre più piccoli e giovani di tutti noi che da tempo abbiamo superato il metro di altezza e di ‘maravilla’), segue questa benedizione che è l’essere sopravvissuti e poter riprendere i riti di sempre, la domenica (e il mercoledì) allo stadio con gli amici o un pezzo di famiglia, con una sciarpa al collo in un luogo dove cantano anche gli stonati a squarciagola e va benissimo così e ci si stringe un po’ anche agli sconosciuti per sostenere il freddo. E per noi soccorritori e lavoratori della macchina di San Siro è una carezza e una maledizione tornare a vedere tutta questa gente, sapere che si torna a dover gestire questa città divisa in anelli e a tutto quello che può accadere prima, durante e dopo un evento, ma anche non dover aver paura di fare troppo rumore e disturbare, perché è passato il tempo in cui si sentivano solo le urla dei portieri e degli allenatori ad incitare i compagni di squadra e anche la zip dello zaino rischiava di far voltare i giocatori in campo nello stadio vuoto come dopo il lancio di una bomba. Non guardiamo quasi mai il campo ma la gente, come la gente si muove, come respira. Ed è chiarissimo a tutti noi che, durante questa partita, qualcosa a un certo punto, sta cambiando. Ed è anche il pubblico stesso (chissà chi ha iniziato quella consapevolezza e quel movimento) a rendersi conto di ciò che sta accadendo, e a guardare, un individuo alla volta, da una sola parte, dalla parte di un giocatore, un uomo che quando si muove sposta l’aria attorno, anche se sta compiendo un gesto piccolo, come quello di alzarsi da una panchina e aggiustarsi le calze. E quell’uomo è Zlatan Ibrahimović. Anche io resto incantata a guardarlo riscaldarsi senza curarmi per un attimo della partita e del pubblico. Anche io vorrei gridare, come tutto lo stadio: ‘Zlatan! Ibrahimović!’ perché so che è vero: sto assistendo alla storia.

Il film Zlatan del regista svedese Jens Sjögren ha a che fare con tutto questo; il racconto è quello di come sia arrivato fin qui, davanti a noi allo stadio di San Siro e sui nostri schermi di casa durante Sanremo, Zlatan Ibrahimović, un calciatore di 40 anni che ha ancora dei piedi che spaventano i ventenni, un nome che anche chi non segue il calcio conosce. Si parte da un quartiere di Malmö, Rosengård, con il piccolo Zlatan, seconda generazione di una famiglia di immigrati jugoslavi, che cerca di gestire la sua infanzia mentre i suoi, separati, cercano di sopravvivere in un luogo dove hanno cercato di avere un futuro migliore, hanno cercato e cercano di fare del loro meglio ma non ci riescono sempre, e nel frattempo il ragazzino incontra il pallone e sembra aggrapparsi a quello – perché una palla costa meno dell’attrezzatura da hockey – per buttarci dentro voglia di rivalsa, rabbia, fame e tutto quello che sta dentro questo racconto. Ma il film di Sjögren va oltre tutto questo, perché la storia di Zatlan, piccolo e non più piccolo, è una storia di tantissimi, è la storia di un sacco di ragazzi e ragazze con occhi e capelli e pelle del colore sbagliato, con un accento diverso, un movimento delle mani più o meno accentuato, che arrivano in un luogo in cui sembrano alieni e, pian piano, si mescolano e non mescolano agli altri. É la storia di chi si comporta in un modo che gli altri sembrano non capire, che forse, semplicemente, è un modo non usuale di incaponirsi di fronte a uno sguardo un po’ più lungo, che forse è un’aggressività di difesa; o di deridere gli altri per paura di essere considerato debole, o un modo per non aver paura. O si tratta semplicemente di una risposta all’incapacità della società di metterti addosso un’etichetta. Allora si semplifica e a noi viene di adeguarci a quella semplificazione. Fare gli spacconi per non perdere tempo a spiegare noi stessi. Ma poi ci si spaventa. Perché quando si va troppo oltre, ci si viene da chiedersi: ma questo davvero sono io? E sfido chiunque a sapersi dare una risposta immediatamente. Si cresce. E ancora non ci si capisce un cavolo. Zlatan è un film  su tutto questo. É un film che parla al passato, a noi che conosciamo quelle bustine di figurine, che indossavano i vestiti di fratelli e amici più grandi (maschi o femmine che importa), a noi che se ci facevamo male avevamo paura ‘di prendere il resto’ una volta a casa, a noi che spiavamo i nostri genitori la sera davanti alla tv, mentre avremmo dovuto dormire, mentre cedevano davanti all’incomprensione di una guerra che non capivano e che non avrebbero mai saputo spiegarci e da cui non ci hanno o non sarebbero stati capaci di difenderci. E non ci fa pena niente di tutto questo, perché non ci facciamo pena noi stessi e non c’è nessuna colonna sonora strappalacrime per assecondare una tendenza di altre storie – storie che non sono questa – e ci riporta al fatto che per noi qualcuno che riesce a portare sulle spalle un materasso è semplicemente ‘un grande’, un uomo forte, da guardare con invidia e non con pietà. Anche se poi è sudato fradicio e ha bisogno di stendersi su quel materasso. É un film che parla al presente, a chi si ritaglia uno spazio per il pallone o per qualunque cosa che ci consenta di spegnere il cervello e sentirsi una cosa sola con la sostanza stessa della vita, freddo, caldo, respiro, battito cardiaco. Ed è anche un film che parla al futuro, perché di queste storie ce ne sono sempre di più. E magari non tutti questi ragazzi e queste ragazze diventeranno quello spaccone di Zlatan Ibrahimović, a cui aspettare dieci minuti sembra un’eternità, ma magari sì. Speriamo. E questa è la loro storia.