Sono strane le amicizie. Nascono per i motivi più strampalati, tra le persone che sembrano le più diverse. Di solito c’è una base comune, il riconoscimento di qualcosa di profondo che regge tutto l’essere dell’altro. Più o meno quella sostanza deve essere la stessa. Tutto il resto non importa. La Regina Vittoria è obesa, annoiata, tremendamente sola nonostante sia continuamente circondata dai membri della sua corte, avvoltoi adulanti sempre in cerca di farsi notare per ottenere un miglioramento economico o di status. Mi hanno sempre fatto impressione le sue statue londinesi per la sua mole ma ho sempre apprezzato tantissimo che lì in Inghilterra le donne sono grandi tanto quanto gli uomini; e anche di più. E la Regina Vittoria è stata una delle più grandi di queste donne straordinarie, un personaggio maestoso e complicato da poterci trarre milioni di film e serie tv (come è stato fatto).
Nel 1889, nell’anno del Giubileo, la Regina Vittoria (Judy Dench) riceve, tra i vari doni provenienti da tutto il suo Impero, un mohur, una moneta indiana che le viene consegnata da due servitori, Mohammed Buksh (Adeel Akhtar) e Abdul Karim, che sono stati selezionati e spediti via nave dall’India all’Inghilterra solo per questa rapidissima operazione. Abdul Karim è solo un ragazzo di 24 anni che lavora raccogliendo i dati dei carcerati della prigione di Agra. Non rispetta la norma secondo la quale non si può guardare la Regina negli occhi e l’anziana sovrana ottantunenne per un attimo lo vede. Dirà poi che è bellissimo. Scoprirà che le interessano i suoi racconti e quella parte di mondo, da cui lei deve tenersi lontana perché le dicono che è pericolosa, che lui rappresenta. Si stupirà del poter ancora sentire qualcosa, dell’essere più emancipata e moderna di quel che credeva, si sentirà nuovamente adorata e protetta e si attaccherà di nuovo alla vita persino quando sarà senza forze.

Il film racconta la storia di una grande amicizia, di una strampalata forma di amore e quasi di dipendenza reciproca di due esseri lontanissimi. Eppure vicinissimi. Stephen Frears, il regista (nomination agli Oscar per Rischiose abitudini e The Queen – La Regina) non sbaglia una virgola nel disegnare la corte della Regina Vittoria, una gabbia dorata che si sposta seguendo tappe che rispettano i cicli delle stagioni, con la costruzione di veri e propri tableau vivent (la tavola imbandita al centro della gelida e ventosa campagna scozzese, la corte in linea di fronte alla Regina nella Durbar – la sala dei tesori artistici ispirata dai racconti indiani di Abdul) che esplicitano molto più delle parole gli stati d’animo dei personaggi. Judi Dench è straordinaria. Riesce ad accasciarsi nel corpo della grassa anziana con lo sguardo spento e la vista coperta da un velo e a risorgere dando luce alla sua persona e sembrare quasi una ragazzina accanto ad Abdul. Il film è molto divertente, non risolve tutti i quesiti che fa nascere, ferisce anche alle volte  per la potenza di alcuni attimi che vanno in completo contrasto con un mondo che sembra solo dipinto.
Mi riferisco allo spietato – e quasi inaspettato – punto di vista del personaggio del servitore indiano Mohammed – interpretato da un bravissimo Adeel Akhtar – sul Regno d’Inghilterra e sulla sudditanza dell’India. L’India sarà indipendente solo nel 1947.