Perché si va a teatro? Alle volte solo per distrarsi, per passare una serata diversa dalle altre. Altre perché ci si può trovare un modo per guardare a una domanda che ci si è posti; magari non trovare comunque la soluzione a un problema ma condividere un dubbio.
Ho visto per la prima volta Arianna Scommegna in scena nel 2000 a Settimo Torinese. Lo spettacolo era Le baccanti e la regia era di Serena Sinigaglia. Non ricordo se ci fosse Mattia Fabris nel pubblico ma è una cosa probabile. Io facevo parte di un gruppo di giovanissimi attori che seguiva un progetto di Gabriele Vacis (un nome che se vi interessate di teatro dovete conoscere o comunque appuntarvi da qualche parte per vedere qualunque cosa sia anche solo lontanamente collegata a lui). Era un laboratorio sul coro, sul come cantano e si muovono nello spazio gli attori, iniziato già con la classe che il regista seguiva alla Scuola Civica di Teatro Paolo Grassi di Milano, quella del diploma del 1996. In quel gruppo, tra altri nomi conosciuti e non, c’erano Arianna Scommegna, Mattia Fabris (protagonisti dello spettacolo di cui sto scrivendo) e Serena Sinigaglia (la regista).
Nel corso di tutti questi anni ogni volta che ho assistito ad una nuova loro messa in scena mi sono sempre sembrati incredibilmente più bravi. Come se ci fossero sempre delle possibilità di tendere più in alto. Il che fa ben sperare anche per il futuro. Questi artisti dal 2007 hanno in gestione con la loro compagnia (ATIR, Associazione Teatrale Indipendente per la Ricerca) il Teatro Ringhiera a Milano. Quest’anno il comune ha deciso di ristrutturarlo e gli spettacoli di questa stagione sono ospitati da altri teatri milanesi che hanno messo a disposizione i loro spazi dando l’occasione al pubblico più pigro ed abituato a frequentare un solo luogo (quello più vicino casa, quello che si crede il migliore) di conoscere anche il lavoro di una compagnia che opera in periferia e di ascoltare una domanda che spesso ci si pone quando ci si trova seduti di fronte a uno spettacolo dell’ATIR: ‘Quanto di me c’è sul palco? Quanto di quello che conosco – e riconosco – c’è in quelle parole e in quelle emozioni?’ Questo perché Serena Sinigaglia cerca sempre di raccontare l’essere umano o disumano più vicino a sé, anche quando racconta storie che ci sembrano molto distanti – tanto quanto la Norvegia, in questo caso. Nelle storie più belle e in quelle più spaventose, c’è quasi sempre anche una parte di noi. Ci sono sempre specchi che ci riflettono, anche tra gli alberi di un’isola norvegese.
Utøya è un’isoletta che si trova nel lago Tyrifjorden e fa parte del comune di Hole, nella contea di Buskerud, in Norvegia. Per quanto a noi possa sembrare particolare, nel 1950 Utøya venne donata al Partito Laburista Norvegese ed è ora di proprietà della Lega dei Giovani Lavoratori (Arbeidernes Ungdomsfylking), un’associazione giovanile legata allo stesso Partito che ogni anno organizza nell’isola campi estivi di formazione. Era il 22 luglio del 2011, quando un certo Anders Breivik, un norvegese tra i norvegesi, travestitosi da poliziotto, si recò sull’isola e in un’ora giustiziò 69 ragazzi tra i 14 e i 20 anni che vi si trovavano per il campo. Questo dopo aver piazzato una bomba davanti al Parlamento di Oslo che provocò la morte di altre 8 persone.
Serena Sinigaglia affida la sceneggiatura dello spettacolo a Edoardo Erba. Il punto di partenza è un libro, Il silenzio degli innocenti, scritto dal giornalista Luca Mariani che si pone delle domande su quanto è accaduto sull’isola e sulle responsabilità e sulle conseguenze di quell’atto mostruoso in tutta Europa.
Utøya parte dalla considerazione della razza. Una coppia litiga per l’acquisto di un gatto. Norvegese deve essere, come fosse garanzia di qualcosa.
La loro viziatissima figlia, Christine, è stata costretta dal padre a trascorrere l’estate al campo dei giovani laburisti.
Fabris e Scommegna indossano una giacca e diventano altro. Sono un altro uomo e un’altra donna, due poliziotti, uno superiore di grado all’altro. Lei avrebbe bisogno di uscire prima quel venerdì per far festeggiare anche ai suoi figli il compleanno della nonna. L’altro ha un atteggiamento di disprezzo nei suoi confronti. Allude, molesto. Ci sono poi un altro uomo e un’altra donna. Loro vivono in campagna. Sono fratelli e lui è disabile (e Mattia Fabris è incredibile nell’interpretarlo). Lui critica il suo vicino, lei gli suggerisce di seguire l’educazione che hanno avuto dai loro genitori e di farsi sempre i fatti propri, seppur rimanendo gentile: ‘Buongiorno, buonasera. E basta’. Attraverso di loro noi (ridendo, soffrendo, aspettando) noi viviamo Utøya, il pregiudizio su chi potesse compiere violenza in un Paese ‘superiore’ rispetto al Sud d’Europa, in cui l’accoglienza e la multiculturalità sembrano date per scontate e in cui si pensa che il male possa appartenere ed essere partorito solo in qualcuno che viene ‘da fuori’.
In qualcosa che considerano altro da loro, altro da noi.
Eppure, come già scritto, ci sono sempre specchi che ci riflettono, anche tra gli alberi di un’isola norvegese.
Lo spettacolo sarà in scena al Teatro Luigi Bon di Colugna di Tavagnacco (UD) il 20 marzo 2018, al Teatro Ca’ Foscari di Venezia il 21 Marzo 2018, al Teatro Comunale di Fontanellato (PR) il 24 marzo 2018, nello spazio IlMaggiore di Verbania il 7 aprile 2018. Sono riuscita a recuperare solo queste date. Fateci un pensiero se siete da quelle parti. Ne vale la pena ogni tanto farsi qualche domanda.