Tre cartelloni. Non vengono usati dal 1986. Mildred Hayes (la strepitosa Frances McDormand in cui tutto è trattenuto nelle labbra serrate) ci passa davanti con l’auto. Forse non li ha mai notati prima d’ora. Mentre lo fa mi ritornano in mente i lavori di un fotografo milanese, Maurizio Montagna, uno in particolare, appunto Billboards. Si tratta di foto di enormi cartelloni pubblicitari vuoti. Prima di guardare le sue foto non avevo mai notato con troppa attenzione quei manifesti. Ce ne sono tantissimi. Soprattutto vuoti, come nelle sue fotografie. Ora li vedo. Mi ha fatto sorridere che l’inizio di questo film meraviglioso e tremendo fosse questo. Dei cartelloni pubblicitari non utilizzati. Un dramma raccontato partendo da un oggetto che se ne fa strumento. Mildred, infatti, ha delle domande a cui non è stata data risposta. Nota quei cartelloni vuoti sulla strada di casa che avrà guardato ogni giorno per anni senza mai vederli davvero. E ora che ha bisogno di chiedere, si accorge che sono proprio nel luogo in cui è accaduto quella cosa che le ha fatto nascere la necessità di porre delle domande e di trovare una risposta, in un tentativo disperatissimo di fare, qualunque cosa – chiedere aiuto, declinare responsabilità, non far dimenticare il proprio dolore, il proprio amore, condividere la pena, sperare che sia fatta giustizia. Accanto a questa madre sboccacciata e capace di sporcarsi le mani e di non abbassare mai la testa (personaggio che ha fatto guadagnare il Golden Globe 2018 come miglior attrice in un dramma alla sua interprete) ci sono uno sceriffo che sta morendo di cancro (il bravissimo Woody Harrelson), un agente di polizia razzista che vive ancora con la madre (enorme l’interpretazione di Sam Rockwell che gli ha fatto vincere il Golden Globe come miglior attore non protagonista), un figlio/fratello che vorrebbe essere un semplice adolescente (il bravissimo Lucas Hedge che abbiamo già visto in Manchester by the sea e da cui ci aspettiamo grandi cose), un bravo ragazzo che probabilmente ha ereditato un’agenzia pubblicitaria dalla famiglia (lo straordinario Caleb Landry Jones che mi aveva scioccato per la sua bravura in Barry Seal) e un nano che forse ha preso una sbandata per la protagonista (Peter Dinklage). Un cast eccezionale per una storia drammaticissima e allo stesso tempo molto divertente, con personaggi al limite del credibile proprio come in alcuni incontri che fanno parte della vita.
Il tema è quello della responsabilità condivisa, del bene comune, della tragedia del singolo che ricade su tutti e della rabbia che l’ingiustizia alimenta e che scatena violenza che va ad aggiungersi ad altra violenza. Tre manifesti a Ebbing, Missouri parla del cordoglio, dell’America, del razzismo, del sessismo. Di un piccolo paese in una grande nazione, delle scelte dei privati che vanno rispettate anche quando hanno conseguenze sugli altri, di una mano tesa e un’aranciata offerta nonostante tutto, dei nemici che forse sono quelli che ci avevano compresi più di tutti, del momento in cui ci si riconosce l’un l’altro, con tutta la propria straordinarietà e i propri limiti e, finalmente, si riprende a sorridere.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film bellissimo che richiede una passeggiata in solitaria dopo la visione, del tempo per incamerare e imparare qualcosa in più dal dolore ma anche del tempo per ridere amaramente delle citazioni sui segnalibro, nella consapevolezza che, in quel groviglio di sensazioni che è la vita, la bellezza a un certo punto ci farà sentire presi in giro per il suo irrompere nei momenti in cui vorremmo solo spaccare tutto; lei arriverà e non potremmo fare nient’altro che arrenderci ad essa.