Un vestito nuovo da regalarti, una crocchetta condivisa – soprattutto – la mano tesa verso di te. Ci sei, ti vedo, non ti butto via. Le parole che sono dietro e dentro i gesti. I gesti che fanno molto più delle parole , soprattutto quando il racconto è fatto da personaggi che non sanno dar loro voce. Si apre con una lezione Un affare di famiglia (dall’originale 万引き家族, Manbiki Kazoku, tradotto per il pubblico internazionale in Shoplifters, ossia ‘taccheggiatori’) di Hirokazu Kore-eda. Osamu Shibata (Lily Franky) insegna a suo figlio Shota (Kairi Jō) l’unica cosa che sa fare e che potrebbe essergli utile, ossia l’arte del taccheggio. Osamu e sua moglie Nobuyo (Sakura Ando) ci provano a lavorare e a vivere in modo decente ma non riescono se non a sopravvivere, nonostante sfruttino la pensione di nonna Hatsue (Kirin Kiki) e condividano tutto quello (o almeno, così pare) che ognuno dei componenti di questa stramba famiglia (a cui appartiene anche Aki, interpretata dalla bellissima Mayu Matsuoka) riesce a racimolare. L’affare di essere una famiglia è il successo che si realizza nello stare insieme ogni sera attorno ad una tavola, il riuscire a portare qualcosa che sostiene tutti grazie alla propria capacità di fare affari appunto, di qualunque tipo, scegliendo in ogni momento, ogni benedetto o maledetto istante, di essere famiglia. Anche la piccola Yuri (Miyu Sasaki), maltrattata dalla sua vera famiglia, verrà raccolta da questo gruppo di spietati piccoli malfattori. Nonostante sia solo una bambina, si riconoscerà nelle cicatrici, nei segni sul corpo, imparerà a dare il suo contributo, anche in termini di affetto, e diventerà una di loro.
Hirokazu Kore-eda, dopo Father and Son e Little sister, continua la sua analisi della famiglia in generale, dei rapporti che si costituiscono all’interno di un nucleo di persone. La indaga all’interno di un contesto difficile, in cui la precarietà la fa da padrone, peraltro nella società giapponese in cui il contatto fisico viene solitamente relegato ad uno spazio intimo e privato e in cui molto spesso il bisogno di esso diviene un peccato da espiare e sfocia così in un un voyeurismo perverso. Ma è perfettamente riconoscibile anche in occidente il percorso quotidiano all’interno della cittadina, i passi compiuti dal povero Cristo, i furtarelli reiterati nello stesso negozio in cui il proprietario quante volte avrà chiuso un occhio; riconoscibile, la figura del capofamiglia o della madre che cerca di proteggere i suoi bambini, che cede al ricatto o sbaglia perché pensa di far bene. Hirokazu Kore-eda ci racconta tutto questo in modo crudo, tenero e spiazzante, affidandosi a un cast superbo. Costruisce acquerelli di felicità e di carezza. Poi quando pensi di aver capito, distrugge il quadro e ti mostra un pezzo di un puzzle che non riuscirai a ricomporre. Ti chiede di puntare il dito. Di decidere cosa sia il bene e cosa il male. E ti lascia così, al freddo, fuori a un balconcino, a immaginare la vita che avresti potuto scegliere, se solo avresti potuto scegliere.

Superbo. Il film più bello dell’anno.