Non mi sono mai fatta prendere tantissimo dai supereroi. Alle maschere moderne ho sempre preferito la mitologia e il teatro. Ma quando negli uomini mascherati ho riconosciuto la tragedia – inginocchiata insieme al piccolo Bruce davanti ai corpi dei suoi genitori come Antigone davanti a suo fratello Polinice – allora lì sono stata catturata. Nell’attrazione e repulsione nei confronti del Pinguino, nel riconoscere un infinito dolore dietro la crudezza di Joker. E ho accettato il verde di rabbia, la bontà straordinaria di chi viene effettivamente da un altro pianeta, la tenacia di chi ha un handicap fisico e allenandosi riesce a fare cose straordinarie, la resurrezione di una poverina grazie a dei gatti…Persino il morso del ragno. Perché in quella vita – quella di Peter Parker – mossa dal ‘grande potere [da cui] derivano grandi responsabilità’ ho riconosciuto il senso di Amleto. Per me, quindi, la nuova deriva comica che ha coinvolto tutto il mondo Marvel seguita, in modo più o meno consapevole, all’enorme successo de I guardiani della galassia, era un insulto alla cupezza dell’Ade di Euridice, al Batman di Michael Keaton e di Tim Burton, soprattutto perché, dopo anni buissimi in cui il costume da pipistrello era stato indossato persino da George Clooney e Val Kilmer (non so chi dei due mi è parso peggiore), quella figura quasi da me cestinata era risorta come la fenicie grazie alla straordinaria interpretazione di Christian Bale diretto da Christopher Nolan. Che ci sia una speranza anche per il piccolo Spider-man, addirittura in una versione animata dove si mescolano i destini di tutti i mondi paralleli in cui, in forme diverse, qualcuno si è sentito costretto dal destino o da un senso di responsabilità (o da entrambe, legate comunque ad una perdita) ad indossare la maschera dell’Uomo ragno?
Ebbene sì.
Spider-man: un nuovo universo racconta la storia di un adolescente afroamericano di origini portoricane, Miles Morales (figura disegnata nel 2011 nientepopodimeno che da un’italiana, Sara Pichelli, nata nell’83 nella provincia di Fermo) che si è appena trasferito in un nuovo collegio, in un quartiere migliore di quello in cui è cresciuto a New York, e che ha delle difficoltà ad integrarsi, anche per le alte aspettative di suo padre, Jefferson Davis, un poliziotto che vede in Spider-man un fuorilegge a causa dei danni collaterali – in realtà non dovuti a Spiderman ma a questi di solito attribuiti – della sua lotta contro il male. L’unica spalla di Miles è suo zio Aaron, il fratello minore del padre da cui questi si è un po’ allontanato crescendo e con cui Miles riesce a criticare la rigidità della figura paterna e a cercare consiglio su qualunque argomento. Ed è proprio una sera in cui Miles è con zio Aaron (che lo incoraggia ad esprimere la sua creatività facendo graffiti in un luogo in cui anche i fratelli Davis erano solito graffitare da ragazzini) che viene morso da un ragno. Ed è lì che tutto cambia. Parte della storia ci è già nota, un’altra è molto complicata e credo venga apprezzata tanto di più da chi conosce meglio di me il territorio dei fumetti su cui ci stiamo muovendo, ma il sentimento che muove questi personaggi è perfettamente riconoscibile da tutti i buoni che affollano anche questo mondo qui. Ci si dimentica di trovarsi di fronte ad un’animazione tanto il lavoro è ben fatto. Ci si dimentica di tutto il frattempo e si torna al motivo per il quale i bambini scelgono quella maschera, nella più o meno forte consapevolezza di poter provare, ognuno di noi ed ognuno a modo suo (chi come Spider-Ham, chi come Miguel O’ Hara o Spider-Gwen o Spider-Man della Terra 616 o Spider-Man Noir) a mettere quel suo potere a disposizione degli altri.
Anche se fa paura. Per una volta tanto, anche io mi sono sentita meno sola. E ho pensato di doverci provare.
[Grazie Stan Lee.]