Non ci stringemmo la mano per presentarci. Ci dicemmo semplicemente i nostri nomi. Miran aveva, e molto probabilmente ha, l’età di mio fratello Tommaso. Allora, 14 anni. Non mi ero chiesta come mai parlasse italiano ma evidentemente per lui era importante sottolineare quanto la Bosnia fosse vicina all’Italia. Guardava la televisione del mio Paese, quella che io da vent’anni contribuisco, nel bene e nel male, a fare. Mi ricordo questo: il suo sguardo sotto il ciuffo; il modo in cui guardavamo New York dal finestrino, seduti uno accanto all’altra su un bus. Ricordo che aveva una cicatrice sul sopracciglio e l’asma. L’asma non l’avevo notata; ce lo aveva detto. Mi chiedo adesso – stupita dal vederla nelle foto perché nel mio ricordo non c’è – se abbia notato la mia vitiligine, le chiazze bianche sul corpo abbronzato. Noi seguivamo le tracce del nostro sangue, la linea Tufo negli States, tra il codino di Baggio, quello più noto per cui tutti impazzivano, e i corner del mio calciatore preferito dell’epoca, Beppe Signori, lui e la sua maglia numero 11, numero mio maledetto, con l’azzurro slavato di una maglia che avevo adottato quando Maradona aveva lasciato il Napoli. Miran invece era stato portato lì dai suoi genitori per sfuggire alla guerra. Ricordo che sentii mia madre associare la parola rifugio all’asma di quel ragazzino biondo con gli occhi scuri. Quo vadis, Aida? mi riporta lì. Ai 12 anni. Alla vicinanza dei ragazzini in viaggio che vedono un mondo per la prima volta, alla somiglianza della loro meraviglia. Alla mano alzata per salutarsi in una terra straniera e ritrovarsi nei pensieri così, per caso, quasi trent’anni dopo, mentre si torna a casa in bici durante il tramonto toccando una periferia sconosciuta, seguendo una traccia resa necessaria dal giorno. Quo vadis, Aida? di Jasmila Žbanić (autrice de Il segreto di Esma, Orso d’oro a Berlino nel 2007, un altro pugno in piena faccia) mi ruba fiato. Il bisogno di fronte alle cose che ci sembrano senza spiegazione è quello di spingere con il polpaccio, di correre più veloce della nausea.

Aida è un’interprete che lavora con l’ONU a Srebrenica, la sua città, zona sicura per civili e residenti nel conflitto di quella che è già l’ex Jugoslavia nel luglio 1995. l’11 luglio, per l’esattezza – sempre il maledetto 11. Aida insegnava inglese nella scuola prima della guerra. Ora lavora per le truppe ONU olandesi, capitanate dal generale Thom Karremans. Ma nonostante la presenza di forze internazionali, le truppe serbe di Mladić continuano ad attaccare l’area, fino a spingere i cittadini sopravvissuti, tra cui anche i figli e il marito di Aida, alla base ONU, dove si deciderà il loro destino.

Ho letto di Srebrenica. So tutto di Srebrenica e di quel genocidio. Eppure cerco di trovare una giustificazione a quello che permettemmo, alla distanza e al modo in cui cercammo di ignorare quello che stava accadendo, con un atteggiamento che credo giustificammo con l’accidia, con un peccato capitale, pur di non ammettere che quell’immobilità era dovuta a qualcosa addirittura di peggio. La cosa che a me sembrava di pensare – ragazzina privilegiata di una piccola cittadina del Sud Italia, il cui primo incontro con un’altra ragazzina nera della stessa città fu a 13 anni, come se prima i neri non ci fossero mai stati lì, come se la mia città non avesse sangue sannita, romano, svevo, egizio, cattolico ed ebreo e di tutto quello che ha toccato le sue strade e i suoi fiumi – era la distanza tra le mie lunghe trecce e i capi coperti delle donne. Il capo coperto come le donne a lutto, come si faceva un tempo in chiesa, come fanno molte mie amiche, come faccio anche io quando sono in viaggio ed è segno di rispetto. E oggi che sono grande e il mondo l’ho visto, quella distanza non la vedo più. E mi chiedo come ho potuto pensarla e se qualcuno me l’abbia imposta per non farmi avere paura. Mi chiedo come sia possibile che invece di prepararci a lottare contro la barbarie evidenziandola ai nostri occhi, ce l’abbiano (ce l’abbiamo) nascosta, spostandola lontano da noi, come se non potesse toccarci. Mentre siamo noi stessi spesso a compierla.

Quo vadis, Aida? è un film potente che racconta una delle vicende più vergognose e terribili della storia degli ultimi 50 anni, ispirandosi alla storia vera di Hasan Nuhanovi – la cui testimonianza ha portato il governo olandese a rispondere delle proprie responsabilità davanti il Tribunale penale Internazionale dell’Aja – riportata nel libro Under the UN Flag. Žbanić  si affida a un cast formidabile, partendo da Jasna Đuričić nei panni di Aida – nervo teso fino alla punta delle dita che non si rilassano mai, palpebra che non sbatte – fino all’ultima comparsa, tra cui molti testimoni di quell’evento. Persone che hanno corretto la regista, dicendole ‘Non è questo il modo in cui ci fecero prigionieri’, lasciandola di stucco; donne che erano bambine durante la guerra di Bosnia che hanno perso i sensi durante le riprese per il riemergere del loro vissuto. Žbanić accenna il peggio, stacca la camera quando sta per accadere. Mostra solo quello che Aida riesce a vedere. Ci lascia salire con lei su un furgone e vedere la folla sterminata di chi è in pericolo e di cui lei, probabilmente, conosce ogni vita. Il resto, la regista lo lascia all’immaginazione, alla capacità di legare l’accenno a quello che lo spettatore sa (il soldato che porta via la bella ragazza, gli uomini costretti a girare l’angolo, i carnefici che occupano le case delle vittime) finché la speranza finisce. Ed è bianco. E silenzio. Il resto sono facce. Facce di chi ha cercato di nascondersi nella folla, di chi ha resistito, di chi ha visto e non è riuscito a fare nulla. Ci guardano di rimando. Ci vedono e ci costringono a ricordare.

Quanto deve aver fatto male a Žbanić girare tutto questo non lo posso immaginare. Quando ha fatto male a me, lo so.