Dal canto greco emerge il suono della strada. Quel rumore confuso in cui ogni tanto si riconoscono i clacson delle automobili, un vociare indistinto, il suono del movimento e della vita. Oppure si parte dal rumore e si arriva al canto. Non mi ricordo più.
Marco Paolini racconta Ulisse. Per essere precisi a parlare è il calzolaio dell’eroe greco. Dice che di cose ne ha viste. Si fa pagare per ogni storia una capra. Oppure un capretto. Grasso. Ma la storia deve valere quella ciccia. Si ferma, piange e non dice perché. Si lamenta del modo di parlare del pastore che incontra, dello slang che sminuisce la parola. Ha un’età indefinita. Quasi come un Dio.

Marco Paolini scrive a quattro mani con Francesco Niccolini storie di Ulisse non così note. Vacis ridisegna il tutto (anche grazie all’aiuto del lavoro di ‘scenofonia, liminismi e stile’ dell’ottimo, immancabile, fondamentale Roberto Tarasco) in una narrazione ricca di migrazioni, di gente che si muove e di altra che accoglie ‘perché ogni naufrago è mandato dagli dei’, può far accadere delle cose, può essere anche lui una divinità. Peccato che Paolini sia talmente bravo da rendere quasi fastidiosi i giovani attori che lo accompagnano in questo viaggio. Bisognerebbe trovare la propria personale strada di narrare, anche passando per l’imitazione, il tentativo di copia di pause in una battuta che non hanno nulla dell’artificio del lavoro in scena – seguono il ritmo del corpo e moltiplicano la significazione delle parole – ma senza ‘cipria’ nella voce e con un atteggiamento più umile di fronte ai mostri sacri con i quali si ha la fortuna di condividere uno spazio. Altrimenti, si può divenire fastidio. Riescono a non sfigurare, invece, grazie a personalità fortissime e a un enorme talento,  Lorenzo Monguzzi e la sensualissima Saba Anglana.

Sono spighe di grano quelle che cadono dal cielo? Sono il polline dei fiori di Itaca? O sono corpi o immondizia da lasciare trasportare via dalle onde? Sono le stesse metalline che usiamo per il soccorso. Sono quelle che noi, come dice Vacis, gli dei di oggi, decidiamo se usare o meno per salvare le vite di chi è arrivato via mare.
Mi interrogo sugli dei, sui passi stanchi, sulla definizione di casa, di eredità. Segno queste parole sul mio taccuino. E piango per Ulisse, anche se è un essere umano imperfetto, perché ho imparato a guardare il presente di un uomo e perché, in ogni caso, lui, quell’uomo lì, non è ancora stato dimenticato.