Maria Stuarda, regina di Scozia. Cattolica, giovane, molto bella. Morta per decapitazione con l’accusa di tradimento da parte di sua cugina Elisabetta I. Lei che non fu mai regina dell’Inghilterra riposa a Westminster Abbey, in mezzo ai sovrani inglesi e di fronte alla sua amata cugina che ne decretò la morte. Avevo solo 14 anni quando vidi la sua tomba. Ne rimasi impressionata perché Maria è una cattolica in una Chiesa protestante. Perché sui libri di storia la versione inglese non ne dipingeva una bella immagine. Eppure Maria Stuarda è a Westminster. Chissà cosa avrebbe pensato Elisabetta I se avesse saputo che un giorno l’avrebbe avuta così vicina.
Questo film suggerisce una possibilità diversa da quella che ci aspetterebbe nei confronti di un traditore condannato a perdere la testa. E a me piace assecondare quest’ipotesi.

Inizia con l’ingresso di Maria Stuarda nella sala in cui verrà uccisa il bellissimo film di Josie Rourke, la cui esperienza teatrale (si tratta della prima opera cinematografica per la regista) viene esplicitata nella scena più importante del racconto (di cui non c’è traccia nella storia reale) ossia dell’incontro tra le due donne in una sorta di lavanderia, in cui i panni stesi forniscono delle quinte che rendono graduale l’avvicinamento e lo svelamento delle due sovrane e, in generale, nella creazione di scene e di un movimento che appartengono al teatro. Ma facciamo un passo indietro.
Siamo nel 1561 e Maria Stuart rientra in Scozia dopo la morte di suo marito Francesco II di Francia. Si fa ospitare dal suo fratellastro James (Giacomo?) Stuart in Scozia nell’attesa che sua cugina, la potentissima Elisabetta I, la riconosca come sovrana di Scozia e accetti la sua candidatura a sua erede, non avendo Elisabetta intenzione di avere figli. La storia ci dice che poi le cose andarono in maniera diversa rispetto a quanto atteso da Maria, sia per quanto riguarda la sua strategia di potere che per il timore di Elisabetta e della sua corte che un giorno la scozzese, essendo una Stuart, avrebbe potuto scavalcarla e tentare di divenire Regina d’Inghilterra per diritto di nascita. Ma oltre a raccontare una storia vera di due personaggi incredibili e di un Paese complesso come il Regno Unito, questo film è un racconto potentissimo e amaro di una certa condizione femminile. Nessuno avrebbe mai potuto capire meglio la posizione di Maria di sua cugina Elisabetta. E nessuno avrebbe mai potuto capire meglio di Elisabetta la posizione di Maria. Entrambe, nate e cresciute in una società in cui erano loro, due donne, quasi assurdamente nella posizione di avere il potere in un mondo maschile, in quale fingeva di poter accettare la cosa solo nel mentre avrebbe trovato il modo di riprenderselo; sono loro, le  principesse e le regine, ad essere usate come oggetto di scambio, barattate per ottenere titoli e terre, per far scoppiare guerre e dichiarare la pace, violentate, calpestate e tradite anche dalle persone più care. Anche da chi non avrebbe mai pensato di volere quel potere, ma, una volta lì, a un passo dall’averlo, sarebbe quasi rimasto stupito della propria cupidigia e della capacità di fare qualunque cosa pur di arrivare più in alto possibile.

Così, mentre Maria si strappa le vesti sotto le quali ha un manto rosso, simbolo del suo martirio, a me resta nelle viscere il dolore per Elisabetta (e, diamine, se non avrebbe meritato una candidatura all’Oscar l’incredibile – e non è la prima volta che posso scriverlo – Margot Robbie), la solitudine di un personaggio complessissimo, marcato dall’essere frutto di una storia dolorosissima, quella di Enrico VIII e Anna Bolena, costretto a rinnegare la sua femminilità, la possibilità di divenire madre, trasformatosi in una maschera neutra e ad essere uomo per il Regno. Il dolore è ancora più forte se si pensa che ancora oggi la storia non ci ha insegnato niente. Sono ancora moltissime le donne in varie parti del mondo costrette e subire un trattamento non molto diverso da quello di quattrocento anni fa. E sono ancora moltissime le donne che per proteggere se stesse ignorano la condizione di altre donne o sono costrette a negare la loro femminilità. E non lo fanno nemmeno per il potere.
Soltanto per ottenere un trattamento uguale a quello che gli uomini riservano a loro stessi.