Le aspettative alle volte è un bene che vengano disattese. Ammettiamo pure che L’uomo sulla strada non sia proprio un titolo appetibile – o almeno, per me – ma richiama alla mente una serie di pellicole (La ragazza del lago, La ragazza nella nebbia, L’uomo del labirinto) in cui un soggetto non definito, se non per sesso ed età, è legato a un luogo – e ad una storia – in cui sappiamo esserci del mistero. Ci rassicura perché sappiamo già più o meno di che si tratta. Quindi, thriller, giallo, noir, e se non bastasse ci mettiamo pure una locandina che pare essere uscita da una copertina dei pocket che si vendono in quasi tutti i negozi delle metropolitane e stazioni londinesi (taglio degli occhi, strada buia dei best sellers del genere che vanno benissimo soprattutto per la lettura in viaggio). Ma in questo caso, oltre al genere atteso (e al timore relativo, viste le realizzazioni non sempre eccelse del cinema italiano) troviamo anche qualcosa di più (e non mi riferisco solo alla riuscita del film ma anche al genere).

Irene è una bambina di otto anni, in giro con il suo papà in cerca di funghi una mattina di una domenica qualunque nel bosco vicino casa. A un tratto sente un rumore e si rende conto che suo padre è stato investito da una macchina mentre era sul ciglio della strada. Riesce a vedere il volto dell’uomo che lo ha travolto prima che questi scappi via, ma non riesce poi a descriverlo. La ritroviamo diciottenne (interpretata da Aurora Giovinazzo, non male perché capace di emozionarsi, nonostante delle pause nei dialoghi per me non troppo comprensibili e necessarie – ci ho messo del tempo a capire cosa per me non andasse nella sua recitazione – molto apprezzata in Freaks out di Mainetti, chicca dello scorso anno in cui si racconta una storia in una modalità che sembra non appartenere al cinema italiano) arrabbiata con la vita, aggressiva, forse anche per i sensi di colpa dovuti all’impossibilità di trovare un colpevole alla morte di suo padre.

Alla sua storia si lega quella di Michele (Lorenzo Richelmy, uno dei ragazzini protagonisti della seconda stagione de I Liceali che ha poi frequentato il Centro sperimentale di cinematografia e che potete aver visto indossare i panni di Marco Polo nell’omonima serie di Netflix), proprietario di una fabbrica ereditata dalla famiglia, uno che sembra cercare un impegno che non ha caratterizzato la sua più giovane età. Lei non lo riconosce, lui sì. Evidentemente le loro strade si sono già incontrate. Il resto andatelo a vedere.

Perché, per quanto le cose si diano per scontate, qualcosa in questo film c’è. Sarà la struttura del racconto, frammentata, con il passato e il futuro che si susseguono – grazie anche alla capacità di trasformazione di Richelmy il cui trucco non pare posticcio e la cui capacità attoriale differenzia le fasi della vita del suo personaggio in maniera congrua e credibile – a rendere il racconto meno banale o le figure tratteggiate, non buone né cattive, come la vita.