Una casa in un paesaggio desolato completamente ricoperto di neve, una donna sola con un bambino, un agente di polizia violento. Dettaglio, campo lunghissimo, dettaglio. L’uomo in questa casa sperduta è riconosciuto come zio Jonas (Peter Dalle). Pretende disciplina, porta provviste, viene a prendersi una dose di sesso che gli viene elargita come fosse una tassa dalla giovane madre (Sofia Helin). Ma il ragazzino li vede, capisce di essere figlio di quella situazione, lei, forse spronata da quello sguardo, dice all’uomo che parlerà con sua moglie se le cose non cambieranno. Lui scappa, dicendole che non tornerà più, e lì, per una donna che ha sempre subìto, l’unica soluzione sembra la rincorsa, il chiarimento e la sottomissione. La donna prova a raggiungere l’auto dell’agente ma è troppo lontana. La strada costeggia il lago e la soluzione, il lasciarsi andare, sembra davvero troppo facile. Quando il ghiaccio si rompe, il ragazzino esce dall’auto. La donna resta a guardarlo, come ha fatto ogni volta che un suo errore costava a lei una percossa, come ha fatto quando lui l’ha vista a letto perdersi sotto il suo aguzzino, così fa ora mentre si perde sotto il ghiaccio del lago.
Dal piccolo al grande e viceversa, in una manciata di minuti spezzetta il racconto Tomas Alfredson (regista del bellissimo horror Lasciami entrare). Chiarisce al primo istante che questa storia privata è vincolata all’ambiente circostante e, probabilmente, suggerisce che senza quella natura predominante (il Nord, la Norvegia dove lo spazio è ampio e non si sfugge al freddo e alla neve) storie del genere non avrebbero avuto l’occasione di accadere.

Poi il racconto, molto complesso, riparte da vent’anni dopo, segue una linea più lineare e, forse, meno interessante. D’altra parte questa storia dell’uomo di neve, la traccia del pupazzo di neve a firmare ogni omicidio, racconta una storia di corruzione e perversione della classe dirigente di un Paese ‘spocchioso’, che ha sempre presentato se stesso come superiore alla volgarità dei territori del sud dell’Europa, ma anche la ricerca di verità e giustizia di una bambina che ha condizionato tutta la sua esistenza su questa direzione e il dramma di un eccezionale detective che non riesce in alcun modo a fuggire ai suoi fantasmi e a un desiderio irrefrenabile di dimenticanza e autodistruzione.

Harry Hole, la figura quasi leggendaria del detective di Oslo dall’eccezionale intuito che lo ha portato in passato a collaborare con l’FBI, ha le sembianze di uno ‘dei più straordinari degli straordinari’, quel Michael Fassbender che anche completamente strafatto, con un occhio aperto e uno quasi no, ferito, sporco e chiaramente maleodorante, riesce ad essere sensuale e a costituire una figura potentissima come pochissimi altri attori riuscirebbero a fare. Spaventa il buio che divora il suo personaggio e ci si chiede se ci sarà l’occasione di ricominciare daccapo, se davvero l’inizio ci potrà far intravedere più pezzi (L’uomo di neve è il settimo romanzo della serie di Jo Nesbø, iniziata con Il pipistrello, che ha come protagonista Harry Hole) di questa specie di antieroe che, ogni volta, tradisce la nostra richiesta di sobrietà e di rasserenazione e ci stupisce con una capacità investigativa che riesce, comunque e nonostante tutto, ad emergere e ad avere la meglio sui suoi tentativi di auto-boicottaggio. Del resto del cast, sottolineo come Val Kilmer riesca ad essere credibile nei panni dell’agente Rafto e come sia davvero un peccato che il botulino gli abbia tolto quasi completamente la capacità di aprire la bocca (ho visto il film in lingua originale e alcune parole erano incomprensibili) e come personalmente io non creda ci sia bisogno di rendere interessante un attore degno come Charlotte Gainsbourg (Rakel) con abitini large dalle maniche lunghe e ginocchia scoperte, quando tutto il resto del cast femminile indossa abiti idonei alla sopravvivenza in un ambiente caratterizzato da temperature glaciali. I piccoli dettagli distraggono. Il mio giudizio generale è che ci si trova davanti a un film godibilissimo già solo per la grandezza del suo protagonista,  riferendomi sia alla creatura per nulla banale partorita dalla penna di Nesbø che all’attore che lo interpreta. Mi resta, però, la sensazione che Tomas Alfredson sia stato un po’ incatenato dalla produzione hollywoodiana (tra i produttori figura anche Martin Scorsese) perché il prodotto finale non rispetta del tutto le promesse date dal taglio del suo incipit ed è più didascalico di quanto l’inizio mi avrebbe fatto pensare.
Bellissimo comunque. Ma avrei lasciato all’uomo della neve – Alfredson, appunto – la possibilità di far ‘sbrilluccicare’ la luce a modo suo.