Non ha nome. O se c’è l’ha, non ha importanza. Ha solo corpo, sguardo, parola, ma una parola diversa, che non corrisponde a quella degli altri di casa. Tredici anni, nessuna somiglianza, se non il coraggio di non distogliere gli occhi, non abbassare la testa. Quello è un carattere distintivo sia di sua madre che di sua sorella. E anche degli uomini di quella che scopre, solo adesso, essere la sua famiglia.

“Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E’ un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.”

Questa è la lingua di Donatella Di Pietrantonio, che con questa storia pubblicata da Einaudi ha vinto il Premio Campiello nel 2017. Questa è l’arminuta, nell’altra lingua – quella degli altri che è anche la sua – lei è ‘quella che è tornata’. Il regista campano Giuseppe Bonito (quello di Figli, con Mastandrea e Cortellesi) dona carne al racconto scritto. Nonostante attori ragazzini quasi pelle e ossa, la loro carne sullo schermo è spessa come quella dei personaggi del libro. Nonostante la protagonista abbia la pelle chiara e sembri Alice nel Paese delle Meraviglie all’arrivo al paese  – con un vestito celeste col colletto bianco, le scarpe di vernice e i capelli da poco spazzolati – pesa tantissimo la sua ostinazione ad andare avanti, il suo non voler essere tornata indietro del tutto, il suo essere con tutto il peso nel presente, il presente di ogni giorno, saldo come la sua piccola grande sorella Adriana, uno dei miei personaggi preferiti della vita.

Sa tanto di Rai Uno questo film. Si sente che è stato lavorato per arrivare sul primo canale per famiglie, anche se questa storia italiana è tanto tosta da digerire e non è stato tagliato nulla delle pagine e degli incastri affettivi complessi. Tanto di cappello quindi alla Rai per il coraggio dei racconti degli ultimi anni, per le storie complicate, il dialetto e le terre forse da alcuni dimenticate, ma non da noi che ci abbiamo vissuto. Grazie anche per aver dato spazio alle facce vere, quelle bellissime che pensavamo non esistessero più in queste città in cui tutti sembrano uguali. La tv, che prima prendeva la voce del racconto teatrale – che vive, però, di un’altra distanza e del respiro di uno spettatore che restituisce – del dialogo, ha imparato a stare zitta. Ha imparato che può proseguire per immagini e pancia. Ha imparato che si può mettere in scena la letteratura senza voce fuori campo che si occupi delle descrizioni. Ma questo è cinema, ovviamente. In ogni caso, a me piace.

(E so che è frutto di quella storia e di quel semplice metterti in piedi e vedere se sopravvivi, ma viva Adriana, comunque.)