Aveva un anno meno di me quando successe.
Si guardava allo specchio mentre si preparava, Jackie.
‘Faceva le prove’ prima di scendere dall’aereo che la stava portando a Dallas.
Credo capiti a tutti di mettersi lì, avanti allo specchio, a ripetere più e più volte quello che uno vorrebbe o dovrebbe dire; nella stragrande maggioranza dei casi, la lingua ci si secca, il tono si abbassa e dei nostri discorsi privati rimane ben poco. Spesso niente. Si gioca ad essere qualcun altro, più coraggioso, più sorridente, che possa fare una figura migliore. Oppure solo lì davanti si riesce ad essere quello che si è davvero. Poi si abbassa la cresta, e si fa quello che si deve fare.
Jackie è pronta. Può andare.
Ricordo che mi è capitato di guardarmi allo specchio, come per ricordarmi di me, prima che accadesse qualcosa che mi ha cambiato per sempre.

Quando ti rompi è così. Puoi incollare i pezzi ma mai sarai più integro come un tempo. Sarai qualcosa di diverso. Magari anche migliore. Ma sarai un altro tu. Prima che accada, però, puoi cercare di restare in quella zona neutra, in cui il dolore è tremendo eppure ha come paralizzato tutti i tuoi sensi. Prima che il sangue del tuo cuore spappolato arrivi al cervello e lo soffochi, forse puoi ancora fare qualcosa.

Ed è quello che Jackie cerca di fare, affinché tutto questo abbia un senso. Cerca di stare seduta alla regia ancora un po’, perché nessuno dimentichi.

Natalie Portman interpreta Jackie.
Dieci giorni dopo Dallas, Jacqueline Kennedy fa in modo che il giornalista del Life Magazine, Theodore H. White (nei suoi panni – bellissimo – Billy Crudup), la raggiunga a Hyannis Port, dove si è rifugiata, per un’intervista.
Lì ripercorre le sue scelte – l’amore per l’arte, la ristrutturazione della Casa Bianca, la passione per la storia e la figura di Lincoln, le spiegazioni al Paese –  e lo sguardo di suo marito John Fitzgerald Kennedy (su di lei, non più su di lei e di nuovo su di lei). Dallas, l’abito rosa, lo sparo, le sue mani che tentano di bloccare il sangue. Si appoggia, si distacca, osserva, dubita, crede, decide. E marcia.
Lo spettatore a volte fatica a respirare.

Il 22 novembre 1963 a Dallas è stato ucciso un uomo, un padre, un marito, un Presidente. È una storia conosciuta ma non in questo modo. Non dal sedile di quella macchina. Jackie è un personaggio noto, ma quella che Pablo Larraìn – lo stesso del Leone d’argento (io gli avrei dato quello d’oro…) con El clan al festival di Venezia del 2015 – ci presenta (facendo riferimento agli appunti dell’intervista che White lasciò alla Kennedy Library, la cui diffusione fu possibile solo un anno dopo la morte della First Lady per volere della stessa Jackie) è una persona che il mito non ci aveva raccontato.
Natalie Portman è grandiosa ma è dura confrontarsi con personaggi reali e, a volte, il suo lavoro per cercare di essere quella donna lì, con quella faccia e quel movimento delle labbra, distrae. Personalmente credo che quando, durante la visione di un film, ci si sofferma sul come e non sul cosa, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Il come è un pensiero che andrebbe fatto dopo. Nonostante questi momenti, in cui lo sforzo è più portato verso la direzione di somigliare all’originale che verso la motivazione dell’emozione, Natalie Portman si conferma una delle migliori attrici sulla piazza.

Jacqueline Kennedy ha fatto di tutto perché suo marito (e i più cattivi credono anche lei di conseguenza) non fosse dimenticato.
Nel 1994, poco dopo la sua morte, ero a Washington con la mia famiglia. Mi impressionò il cartellino che indicava il luogo dove era stata sepolta accanto al suo primo marito. C’erano state polemiche sulla sepoltura, visto che dopo la morte di Kennedy si era sposata con Onassis, il miliardario greco. Dovevano ancora metterle una lapide come si deve (la lastra di granito arrivato dalla casa dei Kennedy di Cape Cod) ed era triste vedere quel cartellino verde – tipo quelli del supermercato – per segnalare la sua presenza, accanto a suo marito e ai suoi due figli morti (uno poco dopo dalla nascita, l’altra mai nata). Nel film, a un certo punto, Bobby Kennedy (che verrà assassinato a sua volta qualche anno dopo) le dice: ‘La storia è crudele. E noi siamo ridicoli’.
Quando ho sentito questa frase ho pensato a quel cartellino verde. La storia è crudele. E noi, visti i nostri sforzi spesso inutili per gestirla, a volte siamo ridicoli.
Eppure c’era un tempo Camelot… ‘Don’t let it be forgot, that once there was a spot, for one brief shining moment that was known as Camelot’. . . there’ll be great presidents again. . . but there’ll never be another Camelot. . .  This was Camelot. . . Let’s not forget.’
Che pena.