Alle volte diventa quasi vergogna.
Non è solo rabbia quel sentimento lì, quel bruciore nella pancia che sale fino al viso…È un po’ come ritrovarsi in un mondo in cui si parla una lingua differente, in cui le cose non hanno lo stesso significato e provocano reazioni diverse da quelle che dovrebbero causare.  È un po’ la vergogna di sentirsi in qualche modo responsabili, complici di un meccanismo perverso, perché se le cose sono arrivate a questo punto noi lo abbiamo permesso.
Eravamo distratti? Come è potuto accadere?
Quando la carità ha assunto un significato diverso e la procedura è diventata qualcosa da cui non si può prescindere?
Quando esattamente abbiamo perso il senso delle cose?

Daniel Blake (Dave Johns) ha cinquantanove anni e ha avuto un infarto che lo ha obbligato a lasciare il suo lavoro di carpentiere. È vedovo di una donna che ha amato tantissimo e che gli ha ripetuto per tutta la vita insieme, anche in punto di morte, di voler salpare con il vento in poppa.  Le uniche cose da cui non vuole separarsi sono la sua cassetta degli attrezzi – da buon carpentiere – e i suoi pesciolini scacciapensieri che regala anche a Daisy, la figlia di Katie (Hayley Squires), per darle la sensazione di essere in posto più caldo, più bello.
Katie è una ragazza madre con due figli a carico. Si è trasferita a Newcastle da Londra perché è qui che lo Stato, dopo averla lasciata per due anni in una piccola camera di un ostello, le ha trovato un alloggio. Newcastle è all’estremo nord dell’Inghilterra, a 500 chilometri da Londra.
È arrivata in ritardo di cinque minuti all’appuntamento per il ritiro del mantenimento economico e la stanno cacciando dall’ufficio.
Daniel è lì perché gli hanno ritirato il sussidio statale a cui ha diritto per le sue condizioni di salute. Vorrebbe fare ricorso ma deve attendere una chiamata da una persona che lavora in quest’ufficio, che gli ribadisca il ritiro del sostegno che gli è già stato comunicato via posta. Poi deve compilare un modulo per il ricorso via web. Lui. Che non sa nemmeno cosa sia un mouse e che ha sempre scritto a matita.
E deve trovare un modo per sopravvivere, dal momento che non può lavorare.

È quella vergogna lì che prende la pancia di Daniel quando si alza dalla seduta di aspetto per difendere Katie. La vergogna per il non riconoscimento di rispetto per gli esseri umani, per quelli che, come lui, non hanno fatto nulla di male per trovarsi nella situazione in cui sono.

Ken Loach torna a raccontare gli ultimi, la dignità di chi non sa dove sbattere la testa, il piccolo sforzo di quelli che cercano di sopperire alle mancanze dello Stato e provano a tendere la mano all’altro, anche se è molto diverso da loro, per razza, età, storia vissuta; gli incontri tra più o meno disperati, le piccole cose come la condivisione di un pasto, il tentativo di riscaldarsi, il racconto di un ricordo, l’ascolto di una canzone. Ridimensiona un po’ delle nostre pene la pulizia del suo occhio sui suoi personaggi, inquadrati quasi sempre a figura mezza o intera, inseriti in un quadro in cui c’è sempre spazio perché un altro intervenga e, come dice la piccola Daisy, si possa accettare l’aiuto.
Un aiuto ricevuto spesso da queste figure straordinarie solo quando, davvero, hanno tentato ogni modo per fare da soli e hanno già raggiunto il limite.
Loach ci dà la misura della dignità dell’essere umano e chiede il riconoscimento della dignità di ogni cittadino; e ci fa rendere conto, purtroppo, di quanto spesso le nostre pene siano misere e di come ognuno di noi posso un giorno essere Daniel Blake.
Ci obbliga a riconoscere che quella vergogna lì, quella che brucia lo stomaco, dovrebbe muoverci più spesso per farci dire o fare qualcosa.
È la nostra unica speranza.