Rosa si muove ad una velocità maggiore rispetto a tutti quelli che ha intorno. Riesce a risolvere qualunque problema si crei sul set del film al quale sta lavorando come sarta, qualunque problema abbia suo padre che ancora non si adatta a vivere dopo due anni dalla morte della moglie, qualunque problema abbia il suo compagno, sua figlia, i suoi fratelli, i suoi amici. Non dice mai di no.
Fino a che.
La sologamia, il matrimonio con se stessi, a quanto pare, è una pratica che è iniziata in Giappone. Avevo letto del suo arrivo in Europa qualche anno fa in un articolo di quelli che si legge quasi per sbaglio o noia sui social, senza prestarci troppa attenzione. Del racconto di persone che decidono di farsi delle promesse, esattamente come lo si fa nei matrimoni ‘tradizionali’ tra due persone; in pubblico, perché un matrimonio è un impegno che si prende con la comunità tutta e con le persone care di cui ci si circonda e a cui si chiede di essere testimoni, vita natural durante – nelle intenzioni più ideali – di quanto dichiarato in quel giorno lì, durante ‘l’evento’, il matrimonio. La regista Icíar Bollaín (suo il ‘Ti do i miei occhi’, premio Goya del 2004) ci racconta un’altra storia con al centro una donna forte, ma anche di una famiglia incasinata come tante, di persone che sono abituate ad aspettarsi sostegno, comprensione, aiuti concreti, perché i rapporti familiari e di affetto sono così, si chiede e non si dà sempre e per forza; alle volte, non si dà e basta e non ci si pone nemmeno la domanda relativa alla liceità di una richiesta o di una pretesa di ‘una mano’. Persone che senza ricorrere ogni volta all’aiuto di un altro – quasi invisibile, di certo scontato ai loro occhi – non sono poi tanto capaci di gestire le loro vite. E quando l’altro si sottrae – alle loro richieste, alle loro indecisioni, alla loro incapacità di lamentarsi e ammettere di aver sbagliato – che si fa? Rosa un giorno silenziosamente si sottrae, si mette in macchina e torna nel paese di sua mamma, Benicasim, nella sartoria dove ha imparato a cucire e ad accumulare le sue certezze, tra bottoni, scatole di latta e la luce del sole di un paese marino filtrata da tende degli anni ’60. Si prende una pausa e decide di ripartire da sé, solo da sé, non perché il resto le faccia ribrezzo o non ce la faccia a gestire tutto ma semplicemente perché è giusto che gli altri si accorgano, di lei prima di tutto, e che lei possa contemplare la possibilità anche di dire no. Il tutto con un tono leggero, da commedia degli equivoci, in cui man mano il cerchio delle persone che hanno capito che sta per succedere un casino che non riescono a evitare si allarga sempre di più, in cui la capacità attoriale la fa da protagonista ed evita che i personaggi diventino troppo delle ‘macchiette’ e che fa vincere a questa storia leggera ma non troppo il premio Goya per la miglior commedia e, a Nathalie Posa (che interpreta la sorella traduttrice di Rosa che alza un po’ di frequente il gomito) il premio come Miglior attrice non protagonista. Il mio ‘ni’ è sempre dovuto ad una mia difficoltà di affrontare il doppiaggio, forse in questo momento in cui guardo quasi tutto in lingua originale e mi sembra che la dizione mi tolga qualcosa che vedo le facce possedere. Per il resto, la riflessione che ne esce sul rispetto di sé e sui rapporti in generale (sulla consapevolezza che dovremmo avere quando rischiamo di prosciugare le energie delle persone a cui vogliamo bene) rende la visione de Il matrimonio di Rosa molto piacevole.