Legacy. Tradizione, lascito, eredità. Qualcosa che abbia a che fare con il passato e il futuro, da prendere e accompagnare al domani. Solitamente sono solita scagliarmi contro le traduzioni dei titoli originali. Anche questa volta, in effetti, da Ghostbuster: Afterlife e Ghostbusters: Legacy viene proprio cambiato il senso della scelta della produzione americana. Inoltre, non sembrano esserci illuminanti motivi dietro la ‘traduzione’ di un titolo inglese per il pubblico italiano con un altro titolo inglese. Eppure ‘legacy’ mi piace molto. E, se avessi dovuto scegliere un titolo tra i due, avrei scelto questo: Ghostbusters: Legacy, il titolo italiano, per dei motivi legati alla trama che non è il caso spoilerare, per la presenza della Ecto 1, la prima mitica macchina della serie e per la scelta del regista, Jason Reitman (quello di Thank you for Smoking, Juno, che ha anche vinto il Golden Globe per la sceneggiatura di Tra le nuvole) che altri non è che il figlio del regista del primo film del 1984, Ivan Reitman, un altro che ha indicato la strada, qualcosa da raccogliere, un lascito, un eredità.
Ghostbuster: Legacy strizza l’occhio a chi ha amato il primo Ghostbuster, collezionato pupazzetti, guardato ai marshmallow per tutta la vita in un modo diverso, ama tutto quello che è stato prodotto negli anni ’80 e tutti i remake cinematografici di pellicole dell’epoca (il film è un rimando continuo ad altri cult come Jumanji ma anche Indiana Jones, All’inseguimento della pietra verde e It), comprese le serie che ne riproducono le atmosfere e/o che raccontano storie in cui gli adolescenti sono protagonisti (Stranger Things e pure Harry Potter); e anche a chi ha sempre fatto il tifo per i perdenti, perché in fondo i primi acchiappafantasmi erano questo, dei perdenti, professionisti strampalati a cui nessuno prestava ascolto e che portavano avanti le loro vite con sufficiente difficoltà. Il film del 2020 (ci ha messo un bel po’ ad arrivare nelle sale a causa della pandemia) inizia con l’assassinio di un uomo misterioso e solo da parte di uno spirito. Da qui si passa alla città, ad una donna, Callie (interpretata dalla mia adorata e detestata Nora di una delle mie serie televisive preferite della vita, The leftovers, Carrie Coon) con problemi economici e due figli adolescenti, Trevor e Phoebe (il primo è la ‘star maschile’ della serie Stranger Things, Mike, Finn Wolfhard; e lei è la mia attrice bambina preferita della storia, Mckenna Grace, che ho amato in Gifted – Il dono del talento di Marc Webb perché non è una bambina carina ma una bravissima attrice giovane, il cui talento, appunto, va ben oltre l’aspetto fisico). Carrie pare una donna molto schietta e diretta, arrabbiata con il padre che l’ha abbandonata e dimenticata, ma pronta ad approfittare della sua morte (le hanno detto che è stato stroncato da un infarto) per cercare di risollevare se stessa e la sua famiglia e pronta in un battibaleno a mettere tutta la sua vita in un’auto e a partire per Summerville, Oklahoma. Dei suoi figli, è soprattutto la seconda a preoccuparla, per i suoi interessi ‘strampalati’ (è un’appassionata di scienza) che la portano ad essere abbastanza isolata dai suoi coetanei. Dei perdenti, quindi, anche tutti loro. Al loro arrivo a Summerville, gli si aggiungeranno altri personaggi perdenti, un professore amante di scienza (Gary Grooberson interpretato da Paul Rudd – ebbene sì, Ant-Man!) referente di corsi estivi in cui si occupa dei suoi interessi mentre i suoi studenti passano il tempo delle lezioni guardando VHS di quelli che all’epoca erano horror b-movie ed ora sono cult (e a cui nessun adulto di oggi avrebbe mai pensato come distrazione, nonostante la consapevolezza che da ragazzini quasi tutti noi hanno sfidato le loro paure guardando – ovviamente di nascosto – qualunque cosa del genere, da ‘Le notti di Zio Tibia’ su Italia 1 a I segreti di Twin Peaks su Retequattro), Podcast, un compagno di classe di Phoebe (Logan Kim) che passa tutto il tempo a registrare il suo podcast sui misteri e che non ha nessun altro a cui chiedere di studiare insieme, e Lucky (Celeste O’ Connor), cameriera del diner locale (anche quello fermo agli anni ’80) che, nonostante gli ammiratori e il bell’aspetto, sa che non lascerà mai quel paesello sperduto e non avrà un destino migliore di chi l’ha preceduta. Ho apprezzato tantissimo la scelta di rendere centro di tutto una ragazzina ‘strana’ (anche se l’amore per le materie scientifiche non dovrebbe da tempo smesso di renderci strani?) e farne il personaggio capace di accogliere l’eredità. Si sente il bisogno di restituire ai ragazzi l’attenzione che non gli si è data durante la pandemia (ma questo film nasce da molto prima di essa) oppure è semplicemente più facile e commerciale tornare ai Goonies? Pensateci, addentando il prossimo marshmallow.