Puoi scappare lontano. Alle volte i motivi sono tanti; quando sei via tenti di ridurre il tutto a una cosa sola perché è più facile ma, in realtà, sono sempre tanti e complicati i motivi che ti hanno portato ad andare via. Sono sempre tanti e complicati i rapporti che ti hanno portato ad andare via.

Sebastiàn Lelio (regista di cui vi avevamo già parlato qui in occasione dell’uscita nelle sale di Una donna fantastica, candidato come miglior film straniero agli Oscar 2018) ci racconta ancora di donne. Ma non solo. Porta in scena un ritorno a casa, quello narrato nel romanzo di Naomi Alderman (vincitore dell’Orange Award for New Writers 2006 e del Sunday Times Young Writer of the Year Award 2007) che si compie quando Ronit (la sensualissima Rachel Weisz), fotografa che vive a New York, è costretta a rientrare a Londra per l’improvvisa morte di suo padre, rabbino di una comunità ebraica londinese. Sono tante le cose che ha lasciato in sospeso, per chiuderle o, al contrario, sperando rimanessero per sempre come le aveva lasciate. Tra tutto ciò, anche le persone, in particolar modo suo cugino Dovid (un intensissimo Alessandro Nivola, sposato da anni con la più nota collega Emily Mortimer) e la sua migliore amica Esti (interpretata da un altro pezzo da novanta, Rachel McAdams). La questione è che le due, da ragazze, hanno avuto una relazione, cosa già complessa in una società normale ma inammissibile all’interno di una comunità con norme rigide come quella ebrea ortodossa alle quali appartengono. Ed è stata proprio questa relazione (insieme al bisogno di Ronit di dare più spazio al suo talento fotografico, all’essere figlia femmina di un padre con un ruolo di guida per una comunità che ha forse schiacciato il suo essere un normale padre, insieme al bisogno di portare i capelli sciolti senza sentire di non essere abbastanza modesti come quella religione non consente di fare e a mille altre cose che la storia ci dice senza dirle) a portare Ronit via da casa.

Che poi, quale è la nostra casa? È quella in cui siamo nati e cresciuti, quella che ci siamo costruiti da soli? Una casa dovrebbe essere un luogo in cui ci si sente al sicuro, in cui si può essere quello che si è senza paura. E se non ci sono queste condizioni nel posto in cui siamo cresciuti, vuol dire che quella non è la nostra casa?
E se i nostri padri ci hanno soffocate, quasi misconoscendoci, dove possiamo mettere il dolore che ci attanaglia per la loro perdita? È quel dolore – è quell’amore – la nostra casa?

Disobedience, disobbedienza, è un film sugli esseri umani, sulla conoscenza e accettazione di se stessi, sull’amore tra le persone, sull’amore in particolare tra tre persone (perché la figura di Dovid è straordinaria, potentissima e assolutamente non di secondo piano rispetto alle altre protagoniste) che si sviluppa all’interno di una comunità rigida che non è molto diversa da moltissime famiglie, nuclei in cui si cerca di andare nella stessa direzione, spesso riconoscendosi ma facendo finta di non farlo. Disobedience è un film sulla disobbedienza all’autoboicottaggio, sulle cene tra parenti, sui testamenti, sul lascito che ognuno porta con sé. Sulle facce da lasciare impresse su una pellicola, sui tentativi del dimenticarsi di sé, sull’inadeguatezza, la spia, il conformarsi, la religione. Saprà forse un po’ troppo di ebraismo e ci sembrerà non parlare ai non ebrei o potremmo considerare troppo didascalica l’esplicitazione della passione, eppure – così come Una donna fantastica parlava a chiunque nel delineare il lutto di un transessuale – questo racconto e questi personaggi arriveranno anche loro dove Lelio li ha introdotti, anche se i nostri cuori forse non sarebbero capaci di così tanto coraggio, di cotanta dignità e, soprattutto, di sacrificare ogni cosa che conta per proteggere chi, da sempre e senza un motivo particolare, si ama. Per me – oltre la più palese passione tra Ronit ed Esti che fa scoppiare quest’ultima come una pentola a pressione tenuta troppo tempo sul fuoco – la storia di Dovid, la sua capacità di vedere una dimensione che non appartiene al mondo nel quale gli è stato insegnato a vivere, ai gesti che ha maneggiato per tutta la sua vita, il suo andare oltre di sé, è la cosa più commovente di questo racconto.