Detroit l’ho vista di passaggio. Il suo nome mi era già noto per via dell’industria automobilistica, per quelle informazioni che non sai nemmeno come ti sono arrivate eppure le hai lì. L’ho attraversata navigando lungo il fiume omonimo dal Lago Huron (dal più piccolo Lago Saint Clare, per la precisione) facendo rotta verso il Lago Erie a bordo di un brigantino battente bandiera statunitense, l’US Brig Niagara. Non ero di guardia quando è accaduto ma il cambio di fuso orario e la necessità di abituarsi alla rotazione delle guardie mi hanno sempre fatto brutti scherzi e quella mattina, nonostante avessi smontato all’alba, ero ancora sveglia e in coperta. Detroit era rossa come un porto inglese. Mi ha fatto pensare a Liverpool. L’abbiamo attraversata tutta. Non so perché ma mi sapeva di lamiere e chewing gum. In quegli anni – era il 2008 – stavano riqualificando molte delle fabbriche (abbandonate a causa della crisi che aveva toccato anche il settore automobilistico) cedendole alle università e ad alcuni artisti. Il fratello dell’unico canadese che avevamo a bordo studiava a Detroit.
Detroit di Kathryn Bigelow fa molti passi indietro. Arriva al 1967. Fine luglio. Non era un periodo facile per essere un nero negli Stati Uniti. Ma forse non è un periodo facile per essere un nero negli Stati Uniti nemmeno adesso.
Bigelow e il suo sceneggiatore Mark Boal decidono di rimettere le mani in uno degli eventi più bui della storia del loro paese, ripartendo dai disordini civili di quell’estate in cui nel caos non era ben sempre chiaro chi fossero le vittime e chi gli innocenti; riparte da una retata in un bar clandestino per vendita illegale di alcolici ad assassinii a sangue freddo in strada giustificati dalla volontà di sistemare le cose e proteggere la cosa pubblica, dalle voci di un gruppo nascente di R&B, i Dramatics, fino ad arrivare, seguendone uno dei protagonisti, Larry Reed (interpretato da Algee Smith), al Motel Algiers, dove accadde l’impensabile. Che, eppure, è davvero accaduto.
Delle mani nere appoggiate alle pareti. Delle mani bianche di due ragazze amiche di neri appoggiate alle pareti. Dei poliziotti che cercano un colpevole che potrebbe non esistere. Fin quando resisteranno i poliziotti per avere la risposta che vogliono? Fin quando resisteranno gli avventori del locale per non dargli la risposta che vogliono?
Kathryn Bigelow inizia a raccontare una storia, una città, gli scontri di una comunità allo stremo delle forze, fino ad arrivare all’incubo, alla dilatazione del tempo, ad un’insistenza quasi sadica, alla gabbia dello spazio unico del corridoio di un maledetto albergo. Ed è tutto vero. Parte con un’introduzione dato dall’unione dei lavori di Jacob Lawrence – straordinario pittore afro-americano che ha lavorato sulla grande migrazione che, per Bigelow, ha con quest’opera descritto perfettamente il contesto di rabbia e senso d’ingiustizia che portò ai disordini civili degli anni ’60 – e gli studi di Henry Louis Gates Jr., direttore dell’Hutchins Center for African American Research dell’Università di Harvard – che ha dato una voce a quei pannelli. Procede, poi, a fare incontrare gli attori – scelti attraverso un casting che gli chiedeva di improvvisare – con i veri protagonisti dell’accaduto al Motel Algiers, non dicendo loro poi chi avrebbero dovuto impersonare e chiedendogli di continuare a lavorare improvvisando anche durante le riprese, cosa che ha sfiancato letteralmente soprattutto il bravissimo Will Poulter, che interpreta il poliziotto che muove le fila del racconto, Philip Krauss, e che ha chiesto, addirittura, di interrompere una scena dopo una serie infinita di ciak, dato che lo sforzo richiesto, soprattutto per entrare in un personaggio così sadico, era davvero troppo. Lo stile di Bigelow è ancora una garanzia. Multicamere sempre in movimento non fanno perdere il minimo tremore degli uomini e delle donne appoggiati alla parete. La sensazione è quella di essere con loro e di non avere – esattamente come loro – alcuna via d’uscita. Negli Stati Uniti il film non ha ottenuto critiche positive e la regista è stata accusata di sadismo. Forse gli americani preferiscono non vedere quello che sanno già.
Ma anche la distribuzione italiana – la Eagle Pictures – ha sottolineato (in grassetto e in rosso nella cartella stampa) come ogni riferimento alle attuali discussioni nazionali sul razzismo istituzionale e gli eventi descritti nel film fossero (al contrario di quello che si fa normalmente) puramente intenzionali.
Questo film è un atto politico. Lo spettatore esce dalla sala buia e sbanda; ha una sensazione di impotenza simile a quella di uno dei protagonisti, Melvin Dismukes (interpretato dal bravissimo John Boyega – sì, il protagonista dell’ultima trilogia di Star Wars) che, per arrotondare, in quei giorni di sommosse e delirio, lavorava come guardia armata in una drogheria e cercò di fare l’impossibile al Motel Algiers, restando completamente impotente, paralizzato dalla consapevolezza del confine molto labile tra il suo essere testimone o vittima.
Io ho avuto bisogno di aria e sono corsa fuori. Non è servito a molto perché neanche questa storia è servita a nulla. Le tracce di quell’odio che ha portato a quegli eventi, cinquant’anni fa, sono ancora qui. Le vedo ogni giorno, dieci, cento, mille volte.
Ed è quindi sempre più necessario che queste storie vengano raccontate, dieci, cento, mille volte.
Ed è sempre più necessario che ognuno di noi non dimentichi.
Figuriamoci questi enormi artisti come Bigelow, che hanno il dovere, con la loro opera, di smuovere le coscienze e risvegliare quel poco o tanto di umano che è rimasto dentro di noi.