Decision to leave è un film che a un certo punto inizia. E poi, a un certo punto, inizia di nuovo. Ma questa cosa la capirete solo andando al cinema. E il mio è un invito a farlo, perché l’ultimo capolavoro di Park Chan-wook è potente e bellissimo, nonostante faccia sentire un po’ ignoranti (almeno farà sentire ignorante chi, come me, non conosce il coreano e il cinese) e impotenti (di fronte a sfumature e significati di culture che conosciamo troppo poco, ma anche di fronte ad alcuni ruoli e ad alcuni destini).

Qualcuno può definirlo un thriller – e lo è – ma Decision to leave è anche un’incredibile storia d’amore.

La storia è quella di Hae-Ju, un poliziotto coreano (il bravissimo e, a mio parere, stupendo Park Hae-il) che vive e lavora a Busan, la più importante città portuale dello Stato, e soffre di insonnia. Sua moglie Jung-An (Lee Jung-hyun, attrice e cantante) è una scienziata che lavora alla centrale nucleare di Ipo-ri, una cittadina nebbiosa a quattrocento chilometri di distanza da suo marito. Si vedono nei weekend. Sembrano sereni, anche se lei parla molto del loro rapporto, di quello che dovrebbero e non dovrebbero fare (come se fosse una continua materia di studio metodico e statistico) e Hae-Ju vorrebbe trovare una soluzione all’assenza di sonno. Entrambi, comunque, sembrano amare quello che fanno con professionalità e impegno. Come Juan-An sembra prediligere un approccio matematico alla vita, Hae-Ju è sempre pronto all’azione – ha un guanto ferrato e tutto quello che potrebbe servirgli nelle tante tasche della giacca che si è fatto personalizzare – e applica la stessa disciplina del suo essere poliziotto ad ogni aspetto della quotidianità.

Il caso su cui Hae-Jun si trova ad indagare è quello dell’ipotesi di omicidio di uno scalatore che è stato trovato, precipitato, ai piedi di una montagna che conosceva molto bene. La sospettata principale è la moglie dell’uomo, Seo-Rae (una totale Tang Wei), una donna cinese bellissima e particolare, più giovane del marito che, guarda caso, era un ispettore dell’immigrazione, a quanto pare, possessivo (le sue iniziali sono su tutte le sue cose, compresa la moglie, su cui ha tatuato le sue iniziali come sul portafogli e lo zainetto) e violento. Seo-Rae è arrivata in Corea su un barcone, come immigrata irregolare, ed è riuscita a restare in Corea grazie al fatto che suo nonno si era distinto nella guerra per l’indipendenza della Manciuria. Dice di non parlare bene il coreano, eppure usa termini come ‘alfine’ (almeno, così avrei tradotto io questa parola ricorrente, che nella versione italiana è stata doppiata come ‘finalmente’, scelta che non concorda con l’appunto di Hae-Jun che commenta le parole non usuali e un po’ arcaiche usate dalla sospettata – che ha imparato il coreano guardando melodrammi in tv). Ma questa Seo-Rae, che si addormenta fumando davanti la tv e mangia solo gelato, è innocente o colpevole? E cosa vuole lo spettatore? Che venga scoperta, che la faccia franca o che si lasci baciare? Dire, fare, baciare, lettera o testamento?

Park Chan-wook è uno dei registi, le cui prime visioni nella sala buia mi sono arrivate come un pugno in faccia. Prodotti del genere, al cinema, a Benevento – la mia piccola città natale – non li avrei mai visti, per la crudezza delle immagini, la crudeltà dei temi, per il riso che scaturisce da alcune situazioni e scene surreali, nonostante tutto quello che c’è intorno. Ma Decision to leave è davvero qualcosa che va oltre, a mio parere, che coniuga la capacità di curare il dettaglio tipica dei thriller, sia a livello registico – con il movimento di macchina che viene prediletto a stacchi netti – che di scrittura (in un mega puzzle complicato dall’uso di codici diversi, da traduzioni fatte con internet, dal riascolto di conversazioni rubate, parole che non sono esattamente quelle che volevano essere dette, dalla difficoltà di chi non dorme bene e che usa gocce auricolari per aiutarsi o telefona per essere mantenuto sveglio mentre guida) che richiamano alla mente proprio il film che ha portato Park Chan-wook a desiderare di poter fare cinema, La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock.

Decision to leave è un film divertente e tristissimo, in cui i ruoli stritolano i personaggi perché non li lasciano stare mai e li portano a fare gli stessi gesti, giusto o sbagliati che siano; in cui ognuno sembra uguale e diverso e alle prese con gli stessi problemi, in cui ci si confonde con i giorni e si scambiano i nomi – maschili per femminili – e non si capiscono le parole, in cui non ci si vede bene e si fa ricorso alla tecnologia e forse ci si incasina ancora di più; in cui quelli che sembrano destinati a non trovarsi mai, forse si erano già confusi per sempre gli uni negli altri; sulla vendetta, il sacrificio, il dovere. Sull’amore che esiste e forse non basta. Sull’amore che non basta a farci sopravvivere, ma forse basta a salvare qualcun altro.